“Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte.”
Giovanni Pascoli è uno dei maggiori poeti dell’Ottocento, e grande esponente della corrente letteraria del Decadentismo: era nato il 31 dicembre del 1855 a San Mauro di Romagna (Forlì) dove il padre era sindaco. E proprio quest’ultimo fu una figura importantissima nella vita del poeta che gli dedicò la poesia X agosto, poichè in questa data, nel 1867 egli fu ammazzato, mentre tornava a casa:
“[…]Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.”
La formazione di Pascoli era decisamente classica e il suo carattere molto riservato, forse perché segnato dai numerosi lutti che dovette affrontare. Quarto di dieci fratelli, a poco a poco, vedrà morire molti dei membri della sua numerosa famiglia. All’università di Bologna è alunno di Giosuè Carducci non sapendo che da lì a pochi anni, nel 1905, la cattedra di letteratura italiana sarebbe passata proprio a lui!
Quando nel 1876 muore il fratello maggiore Giacomo, decide di escludere le relazioni sentimentali e punta alla ricostruzione del nucleo famigliare paterno: si trasferisce a Massa, in Toscana, richiama dal convento le sorelle che vanno a vivere insieme, guardando con sospetto tutto ciò che accade al di fuori del nido. La sorella Maria non si separerà più da lui, e dopo la morte di Pascoli, diverrà la curatrice dei suoi inediti.
“Di fatto si determina nei tre [Giovanni Pascoli e le due sorelle minori Ida e Maria] che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all’infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può oltre tutto mimetizzarsi con la natura.”
(Mario Luzi)
Le raccolte di poesie più importanti sono Myricae, che esce per la prima volta nel 1891, e Canti di Castelvecchio del 1903: in esse Pascoli introduce la poetica del fanciullino, figura presente potenzialmente in ogni uomo, e in contrasto col superuomo dannunziano, ma che solo il poeta può far rivivere sapendo esso scorgere il significato di quelle piccole cose che l’adulto trascura. Il fanciullino vede cose che passano inosservate, guarda il mondo con stupore e si sottrae alla logica.
Prima di morire, Pascoli pronuncia il discorso “La grande proletaria si è mossa”, dedicato a sostenere l’impresa coloniale italiana in Libia. Si spegne il 6 aprile del 1912 a Bologna.
Maria Pisani