«Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita» è il titolo del libro della sociologa Francesca Coin, che si occupa di lavoro e di diseguaglianze sociali, edito da Einaudi nel maggio 2023. Libro fondamentale perché contiene un’analisi trasversale e minuziosa, scevra d’accademismo, del fenomeno epocale delle grandi dimissioni. Suffragata da ricerche storiche, dati statistici, testimonianze e riflessioni significative, l’analisi svolta dalla sociologa Francesca Coin consente d’inquadrare pragmaticamente l’evento delle grandi dimissioni nella dimensione della riproduzione quotidiana della vita stessa degli individui.

Quindi è evidente la centralità della questione del lavoro, in seno a una società capitalistica estrattivista e gerarchizzata, in quanto rapporto di subalternità e d’iper-sfruttamento a nocumento della working class sulla base di un iniquo accordo monetario sancendo, di fatto, una sussunzione vitale laddove tutto il tempo di vita diviene forza-lavoro e, di conseguenza, la giornata lavorativa non ha più limiti, se non al massimo quelli naturali.

Ragion per cui, in contrapposizione a una costante precarizzazione esistenziale tra assenza di tutele e salari da fame, a una esaustione psico-fisica, a un’alienante hustle culture, a una coatta e disumanizzante unificazione tra tempo di lavoro e tempo di vita e, infine, a una totale deprivazione di senso del futuro, molte soggettività hanno manifestato concretamente la volontà di una rottura – con tutte le sue contraddittorietà – e in tal senso le grandi dimissioni sono il sintomo di un malessere profondo e generalizzato, di un nuovo rifiuto del lavoro, della necessità di riappropriarsi del proprio tempo di vita.

Riprendendo a tal proposito un frammento de Le grandi dimissioni s’evince che: «Il sistema in cui viviamo è rotto e in questo contesto spesso chi abbandona il lavoro non lo fa perché può permetterselo. Lo fa per sopravvivere. Lo fa perché non ce la fa più, perché è in burnout, per prendersi cura dei propri cari o perché sa benissimo che il vero problema, oggi, non è chi può permettersi di non lavorare, ma chi lavora sempre e nonostante questo non riesce a racimolare i soldi per pagare sia l’affitto che la cena».

Dunque, Francesca Coin con la sua opera ha concretizzato una prassi inedita in relazione alle grandi dimissioni, ovverosia osservare attivamente un fenomeno, analizzarlo, demistificarlo e inserirlo nel contesto d’un progetto di rivendicazione individuale e sociale: il lavoro non può essere l’unico scopo dell’intera esistenza individuale, non può essere l’unico criterio di validazione soggettiva e sociale, perciò il benessere individuale-collettivo della working class non può essere negoziabile ed è, altresì, antitetico a una assoggettante razionalità economica basata esclusivamente sulla massimizzazione del profitto a tutti costi.

grandi dimissioni
Francesca Coin
Francesca Coin

Di seguito l’intervista alla sociologa Francesca Coin.

Per via della transizione dal capitalismo industriale di stampo fordista al capitalismo bio-cognitivo si sono manifestate nuove forme d’oppressione, di sfruttamento consolidatesi sulla completa fusione tra tempo di lavoro e tempo di vita della working class. Pertanto, nell’ambito d’un modello produttivo fondato sull’istituzione del lavoro salariato in quanto unica fonte di riconoscimento sociale e di sostentamento per gran parte della popolazione globale, come si potrebbe, secondo lei, decifrare il fenomeno delle grandi dimissioni?

«Quando parliamo di grandi dimissioni parliamo della crescita del turnover volontario in molti settori dello spazio del lavoro in Italia come all’estero. Parliamo di settori che hanno a che fare con i servizi, con la ristorazione, con il commercio, con la sanità, con i servizi per le imprese. Quindi guardiamo per molti versi a un’economia che è fortemente terziarizzata e a quello che è accaduto al mercato del lavoro dopo la crisi del fordismo, quindi nel cosiddetto post-fordismo che ha portato a un aumento – appunto anche in un paese come l’Italia – della terziarizzazione. Un graduale smantellamento del settore industriale e una crescita, appunto, dei servizi. I servizi sono storicamente la parte più vulnerabile dal punto di vista dei diritti del mercato del lavoro, sono ampiamente composti da lavori precari, sotto-pagati e caratterizzati da una riduzione dei diritti ed è qui che vediamo una crescita delle dimissioni volontarie. Quando guardiamo la crescita delle dimissioni volontarie quindi, di fatto, stiamo guardando a un sintomo di un malessere, al sintomo di una crisi di un settore produttivo, di vari settori produttivi. Dobbiamo guardare da questo punto di vista non solo al deterioramento delle condizioni di lavoro ma anche all’aspetto soggettivo di come vengono vissute queste condizioni di lavoro e, quindi, a una crescita dell’insoddisfazione, che è un altro dei fattori che tutte le statistiche degli ultimi anni portano a galla».

In Italia l’insanabile conflitto capitale-lavoro ha comportato un notevole deterioramento delle condizioni produttive ed economiche, insieme allo smantellamento dei diritti di una working class spesso precaria, vessata e razzializzata. È l’unico Paese OCSE in cui i salari sono regrediti: 2,9% in meno rispetto al 1990, attualmente con un tasso di disoccupazione che s’attesta al 6,5%, al 20,8% tra i giovani, più un incremento esponenziale di dimissioni volontarie: oltre i 2 milioni registrate solo nel 2022. V’è, inoltre, una media di tre morti bianche al giorno: una vera e propria mattanza quotidiana. A suo avviso, dunque, quali sono le cause di questa anomalia italiana?

«Ho parlato di anomalia italiana per sottolineare il fatto che il caso italiano rispetto ad altri paesi è caratterizzato da una maggiore disoccupazione e da un numero di persone disoccupate e scoraggiate pari a circa cinque milioni. Rispetto agli Stati Uniti, che negli ultimi tre anni hanno visto piena occupazione, questo significa che chi lascia un lavoro fa fatica a trovarne un altro o comunque non è certo di trovarne un altro; viceversa negli Stati Uniti per esempio nei settori a bassa qualifica e più ampiamente sotto-pagati, come il commercio e la ristorazione, la domanda di lavoratori era così alta che chi lasciava sapeva che in questi settori delle grandi catene della ristorazione – penso anche a McDonald’s e a Burger King – avrebbe trovato altre offerte. Viceversa, in Italia uno dei maggiori disincentivi a lasciare è proprio il fatto che chi lascia il lavoro non è certo di trovarne un altro. Pertanto, nel caso italiano quando vediamo che le dimissioni volontarie aumentano e aumenta la fatica a reperire forza-lavoro nonostante ci siano cinque milioni di disoccupati e scoraggiati, questo significa che l’incentivo a restare è molto basso e che le condizioni di lavoro si sono deteriorate.

Quando diciamo questo ci riferiamo non solo ai salari e alle condizioni di lavoro, ma ci riferiamo anche a forme di controllo del lavoro, a un’infortunistica spesso difficile da gestire, a un lavoro che invade spesso tutto il tempo di vita, a condizioni di controllo e di vessazione che in alcuni settori, come nel commercio, spesso sono esasperati. Quindi in molti casi vediamo che si lascia anche senza avere un’alternativa, infatti nel 65% circa dei casi le persone che lasciano non trovano a tre mesi dalla data di abbandono un altro lavoro. Molto spesso questo nelle interviste delle persone ha una giustificazione molto semplice e cioè che il burnout, il malessere di chi lascia è tale da rendere impossibile restare, il che lo rende un quadro abbastanza calzante del mercato del lavoro italiano in cui non solo i salari si sono abbassati in trent’anni, anche questi in contro-tendenza rispetto al resto dei paesi europei, ma il tentativo di competere attraverso la compressione del costo del lavoro ha indotto ad aumentare forme di controllo spesso insostenibili per chi lavora. Quindi è un tema questo molto significativo in un contesto come quello italiano di un deterioramento generale delle condizioni del lavoro e del mercato del lavoro. Non a caso guardiamo a questo fenomeno dopo circa un trentennio di disinvestimento in ricerca e sviluppo, in politiche industriali e di generale terziarizzazione dell’economia che fa sì che vi siano delle aree del paese desertificate dal punto di vista produttivo in cui, di fatto, lo sfruttamento è stato l’unica opzione che la politica ha dato al modello di sviluppo esistente».

L’economista Guy Standing afferma che: «il precariato non è una classe-per-sé, in parte perché è in guerra con se stesso. […] Le tensioni all’interno del precariato pongono le persone le une contro le altre, impedendo di riconoscere nella struttura sociale ed economica la causa comune della loro vulnerabilità». Lei sottolinea nel suo testo la natura sintomatologica del nuovo rifiuto del lavoro in quanto rottura individuale rispetto a un malsano paradigma lavorista. Secondo lei, nonostante l’attuale assenza di una coscienza di classe, dal fenomeno delle grandi dimissioni ne potrebbe scaturire una contro-narrazione collettiva tesa alla trasformazione di un conflitto interiore in una radicale alternativa politico-sociale che metta profondamente in discussione il ricatto salariale, la visione padronale, quindi l’intero modello produttivo?

«Dunque, per interpretare la crescita del turnover volontario per me è stato necessario guardare a quello che avveniva nella storia e se pensiamo a quello che accadeva cent’anni fa, quando nelle fabbriche stavano introducendo la catena di montaggio, quindi le condizioni di sfruttamento aumentavano di molto in quel periodo, c’era sì una crescita del turnover volontario ma anche dell’assenteismo e anche degli scioperi. Andarsene di per se stesso naturalmente non equivale a una forma di protesta ma è un sintomo, appunto il sintomo di un malessere diffuso. Quello che abbiamo visto negli ultimi due/tre anni è che questa difficoltà a reperire forza-lavoro, questa difficoltà a trattenere forza-lavoro, ha imposto un cambiamento nel dibattito pubblico e questo cambiamento rompe un po’ la narrazione che è stata egemonica negli ultimi trent’anni che sostanzialmente identificava il lavoro come una forma di realizzazione di sé. Questo non voglio dire sia impossibile in assoluto ma chiaramente nel contesto attuale in cui il lavoro che viene offerto è scarsamente codificato e fortemente sotto-pagato, la narrazione della realizzazione di sé si è un po’ rotta e rompere una narrazione è il primo passo per cominciare a guardare il mondo con altri occhi, è il primo passo per cambiare la narrazione esistente, è il primo passo anche per permettere più ampie alleanze tra i settori di un mondo del lavoro che cercano di meglio, che cercano soluzioni individuali e quei settori del mercato del lavoro che organizzano delle lotte, che convergono su delle lotte. Tutto questo sta avvenendo anche in questo periodo, ci sono le lotte sul lavoro e diciamo che rispetto a qualche anno fa è assodato che il mondo del lavoro è rotto e quindi ha bisogno di riforme indispensabili come quelle che esistono sotto forma di esperimento: per esempio la settimana corta a un’utenza più larga. Sono riflessioni indispensabili per rispondere a un contesto di policrisi dentro e fuori il mondo del lavoro».

Il capitale sfrutta la precarizzazione per controllare le soggettività ed estorcere innovazione e ricchezza in conformità al feticcio della crescita. Emblematica, in tal senso, è la politica aziendale di Amazon, estrattivista, anti-sindacale e incentrata sulla costante sostituibilità della manodopera. In relazione a ciò, dal suo libro Le grandi dimissioni trapela un dato allarmante: «Amazon ha iniziato il 2022 acquistando «il maggior numero di robot in un solo trimestre». […] Una piena automazione consentirebbe dunque all’azienda di confermare il proprio modello produttivo». Considerando il rapido avanzare dell’integrale automazione del lavoro su larga scala, quali scenari si profilerebbero, a suo avviso, per la working class?

«Dunque, mettiamola così, a noi hanno detto per trent’anni che l’automazione avrebbe reso il lavoro superfluo e quindi il vero problema della quarta rivoluzione industriale sarebbe stato che le persone non avrebbero avuto nessuna ragione per alzarsi dal letto la mattina perché non c’era necessità della loro forza-lavoro. Quello che viviamo oggi, invece, è che c’è carenza di personale in tutti i settori quindi abbiamo pensato che il lavoro umano sarebbe stato superfluo, invece il lavoro umano non si trova più, le aziende hanno bisogno di lavoratori che non trovano e non li trovano perché c’è una crisi demografica, perché c’è una disaffezione al lavoro e perché le politiche migratorie sono fortemente restrittive. In questa situazione la risposta all’ondata di grandi dimissioni, come giustamente viene specificato nella domanda, è che giganti come Amazon hanno raddoppiato gli investimenti in automazione, cioè hanno detto: noi non troviamo più forza-lavoro, allora investiamo in automazione. A me quello che preme di quest’esempio è che l’automazione sta avvenendo in risposta a un’assenza, a una sottrazione della forza-lavoro, quindi è un esito di un’azione di sottrazione da parte della classe lavoratrice e questo un pochino cambia gli scenari perché lo scenario che vedeva appunto la forza-lavoro superflua di fronte all’incedere delle macchine è uno scenario che ci raccontano da almeno duecento anni all’incirca ma, di fatto, il lavoro umano è sempre stato necessario. L’automazione e l’IA abbattono i costi del lavoro ma non sostituiscono il lavoro umano e quindi c’è un ragionamento da fare su come politicizzare questa ondata di disaffezione. Ci sarebbe un ragionamento da fare anche su come usare, naturalmente, l’automazione perché ovviamente le aziende che se ne servono la sfruttano per ridurre il costo del lavoro e ridurre le interferenze del lavoro vivo al processo produttivo. Noi dovremmo pensare a un’automazione che serva a chi lavora e anche a come politicizzare una disaffezione diffusa».

Mark Fisher in Realismo Capitalista ha scritto: «Ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’ordine naturale, deve rivelare che ciò che viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza». Dal suo testo Le grandi dimissioni emerge la stringente necessità di riconsiderare radicalmente il lavoro, la salute psico-fisica, la collettivizzazione e la ri-politicizzazione delle esistenze e del conflitto e l’imprescindibile riappropriazione del tempo di vita in contrapposizione a un modello capitalistico – ormai teologizzato – anti-ecologico e disumanizzante. Lei pensa, pertanto, che si possa sconfessare l’infausta profezia thatcheriana: «There is no alternative»?

«Quello che la crescita del turnover volontario ha fatto negli ultimi anni è stato appunto di mettere in discussione il fatto che il lavoro, il lavoro salariato, il lavoro dipendente, quindi il lavoro sfruttato sia naturale. Le persone hanno cercato delle modalità di sopravvivenza che potessero ridurre il ruolo del lavoro dipendente nella loro vita. Quindi, per certi versi, qui possiamo tornare al libro di Clara E. Mattei che in inglese s’intitola: «The Capital Order: How Economists Invented Austerity and Paved the Way to Fascism», e lei appunto sosteneva che avere una classe lavoratrice alle dipendenze del capitalismo è uno dei pilastri dell’ordine naturale. È chiaro che problematizzare quest’ordine naturale – cosa che ha fatto ciascun dimissionario mettendo in discussione il ruolo del lavoro nella propria vita – è uno degli aspetti fondamentali di ripensamento di un ordine che comunque non funziona più. Mark Fisher scriveva più di vent’anni fa che è più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo e ovviamente nell’Inghilterra thatcheriana la frase «There is no alternative» ha segnato almeno i cinque decenni successivi. Però se guardiamo al mondo oggi vediamo che questa assenza di alternative è stata catastrofica perché quest’ordine che doveva essere efficiente, che doveva essere il miglior ordine possibile, non ha fatto che produrre crisi: crisi economiche, crisi sanitarie, crisi climatica. Pertanto, se dovessimo guardare a quell’affermazione thatcheriana oggi, penso che potremmo anche dire che ci sono solo alternative perché quella «alternativa»non funziona più, quindi è tempo di sperimentare le altre».

La celebre formula del non più indefesso impiegato notarile Bartleby, protagonista del racconto di Herman Melville, «preferirei di no», incarna una forma di astensione rispetto a una opprimente e ricattatoria prassi lavorativa e, icasticamente, rievoca il fenomeno delle grandi dimissioni, oltre, al contempo, a far comprendere per contrasto l’importanza di ri-collettivizzare, di ri-politicizzare l’esistenza affinché quell’astensione diventi catalizzatrice di lotte per l’intera working calss, affinché si possa liberare il tempo di vita dal lavoro alienato.

In virtù di ciò, Le grandi dimissioni si rivela un vero e proprio manifesto: Francesca Coin non rivolge un invito alla quieta riflessione, ma costringe chi ne fruisce a fare i conti con il proprio sé e con le relative aspettative al fine d’osservare il mondo con uno sguardo radicale e rinnovato per poter finalmente squarciare il velo della menzogna che segna l’identità di ogni lavoratore e lavoratrice in quanto mere macchine produttive per un fine a loro estraneo.

Il totalizzante trionfo del capitalismo è tanto più radicale in quanto crea una percezione normalizzata degli eventi, una percezione che non si presenta con i tratti ideologici d’una determinata ragione economica, bensì come la natura stessa del mondo, come l’essenza immutabile dell’umanità. Per quanto il capitale, però, sia un processo privo di soggetto – fondandosi sull’alienazione del controllo in rapporto ai produttori e riducendo il lavoro a mero fattore materiale di produzione – permane un fatto incontrovertibile e perturbante: il lavoro vivo, potenzialmente sovversivo, resta invariabilmente il soggetto reale della produzione e dell’automazione da cui dipende l’esistenza stessa del capitale.

Non sussiste attualmente una soluzione alla deflagrazione sistemica in atto ma comincia a germogliare la vivida possibilità di una incisiva contro-narrazione, di una risematizzazione del tempo presente e dell’immaginario collettivo, ma soprattutto di rinascenti lotte politico-sociali tese a sovvertire un modello produttivo marcescente, come nell’emblematico caso del Collettivo di Fabbrica GKN. Da qui può scaturire il desiderio di riappropriarsi di un futuro al momento inimmaginabile, del resto il cammino dell’emancipazione lo si fa camminando proprio a partire da un monito di coscienza più che necessario: smetti d’immaginare l’apocalisse, comincia a immaginare la rivoluzione!

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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