Sono sempre di più i giovani che lasciano l’Italia in cerca di maggiori opportunità: il fenomeno della “fuga di cervelli” mette in luce le difficoltà affrontate dalle nuove generazioni nel nostro paese.
Ogni anno aumenta il numero di giovani italiani che lasciano l’Italia in cerca di maggiori opportunità; secondo i dati ISTAT, nel 2019 sono stati 120.000 gli italiani che si sono trasferiti all’estero: tuttavia, questa cifra è probabilmente una sottostima, poiché include solo quei cittadini che si sono cancellati ufficialmente dall’anagrafe nazionale e hanno spostato la loro residenza all’estero. Un’analisi condotta da due studenti italiani ad Harvard ha concluso che il numero di italiani che vivono all’estero è almeno il doppio delle cifre ufficiali. Tra gli italiani che partono, oltre il 60% ha meno di 34 anni, e si tratta in prevalenza di giovani studenti o neolaureati in cerca di opportunità formative e professionali. Rispetto al 2006, il numero totale di italiani che vivono all’estero è aumentato del 76%, e di una percentuale ancora maggiore (+78,4%) nella fascia di età 18-40 anni. È inoltre aumentato anche il numero di questi italiani espatriati che hanno un livello di educazione medio-alto.
Questa diaspora è detta la fuga di cervelli, un termine che illustra la perdita di risorse causata dall’emigrazione di persone giovani, istruite e altamente qualificate dal paese. Sebbene questo fenomeno sia sempre stato fonte di preoccupazione, recentemente è tornato nel dibattito pubblico con rinnovata urgenza, a causa della pandemia di Covid-19. Rivoluzionando le dinamiche di mobilità internazionale e di lavoro, limitando gli spostamenti e spingendo molti espatriati a tornare in Italia almeno temporaneamente, la pandemia di Covid-19 ha infatti portato la questione della fuga di cervelli in primo piano. La possibilità di lavorare e studiare da remoto ha permesso a molti italiani di tornare a casa, una scelta fatta da così tante persone che è stato creato il termine “South Working” per descrivere il fenomeno, e che ha portato i politici a chiedersi come cercare di favorire la permanenza di questi giovani in Italia dopo la fine della pandemia, in modo che possano contribuire alla ripresa del paese.
Philipp Woelk è uno dei giovani italiani che ha deciso di tornare a casa durante la pandemia di Covid-19. Quando il suo ruolo come analista presso una ONG di Londra è passato al lavoro da remoto, Philipp è tornato nella sua città natale, Trento, e ci è rimasto per più di un anno, potenso sfruttare le opportunità di lavoro che normalmente gli sarebbero state offerte all’estero da casa. Eppure, tornato in Italia, Philipp ha constatato coi suoi occhi la disparità di opportunità tra i giovani in Italia e in altri paesi europei. Philipp aveva responsabilità, riconoscimenti per il suo lavoro e un buono stipendio, anche come lavoratore giovane e alle prime armi: non si poteva dire lo stesso per i suoi amici in aziende italiane. “È stato molto triste per me vedere amici brillanti e preparati accettare condizioni di lavoro orribili, come stage non pagati in cui veniva loro chiesto di fare i salti mortali”, dice Philipp, “ed è stato ancora più triste vederli festeggiare questi stage non pagati come se non ci fossero alternative, senza rendersi conto quanto fosse sbagliato”. Per questi motivi, quando nel settembre 2021 il suo lavoro è tornato a essere in presenza, Philipp ha deciso di tornare a Londra, anteponendo le sue prospettive professionali al vivere in patria. “L’attaccamento emotivo che ho a casa non compensa la mancanza di opportunità” ha detto.
Come evidenziato dall’esempio di Philipp, la fuga di cervelli italiani ha radici nella situazione preoccupante del mercato del lavoro del paese e nelle maggiori opportunità di lavoro che i giovani trovano all’estero. Secondo Eurostat, il tasso di persone dai 15 ai 29 anni che non hanno un lavoro né un impiego in Italia nel 2019 è stato del 22,1%, il valore più alto dell’UE. Possedere una laurea ha poco valore in termini di miglioramento delle prospettive di lavoro o di retribuzione, secondo un rapporto della Corte dei Conti italiana: solo il 68% dei laureati italiani ha un lavoro, contro la media Ocse dell’85%, e questi laureati guadagnano in media solo il 38% in più di chi non ha frequentato l’università, mentre la media Ocse è del 55% in più. Inoltre, circa il 20% dei lavoratori italiani è sovraqualificato per le mansioni che svolge, il che incentiva sempre più italiani a cercare migliori opportunità all’estero: secondo un rapporto di AlmaLaurea, un consorzio di università italiane, a cinque anni dalla laurea chi lavora all’estero riceve in media uno stipendio netto superiore del 61% rispetto ai laureati italiani che rimangono a lavorare in Italia.
La sociologa franco-italiana Chantal Saint-Blancat, che ha dedicato molte delle sue ricerche alla diaspora dei giovani italiani, crede che la fuga di cervelli non sia solo un fenomeno legato alle poche prospettive lavorative, ma anche un problema di insufficienza di fondi pubblici destinati all’istruzione e alla ricerca, che limita le opportunità per i giovani. “In Italia c’è una resistenza strutturale a concedere riconoscimento e spazio ai giovani cervelli” ha detto, “non solo nel mondo del lavoro, ma anche nella ricerca e nelle università”. La mancanza di finanziamenti alle università porta infatti molti studenti e laureati italiani a lasciare il paese e a trasferirsi in luoghi che offrono maggiori prospettive. Secondo l’Istituto di Statistica dell’Unesco, la spesa totale per la ricerca in Italia ammonta solo all’1,35% del PIL, contro il 2,19% della Francia e il 3,02% della Germania. Le cifre relative agli investimenti pubblici nell’istruzione sono ancora più allarmanti: secondo i dati dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani, l’Italia è all’ultimo posto in Europa per la spesa nell’istruzione universitaria, che è solo lo 0,3% sul totale della spesa pubblica, meno della metà della media europea dello 0,7%. Secondo Eurostat, per ogni euro speso per l’università, l’Italia spende 44 euro per le pensioni.
“Il grande divario tra il potenziale dei giovani italiani e la mancanza di opportunità offerte loro è evidente se si guarda ai progetti di ricerca finanziati dall’European Research Centre”, sostiene Saint-Blancat. I ricercatori scientifici italiani ricevono gran parte dei fondi ERC, ha spiegato, ma per lo più svolgono le loro ricerche all’estero, in università e istituti di ricerca di altri paesi europei. Ad esempio, nel 2020, i ricercatori italiani sono stati i principali destinatari delle sovvenzioni con 47 progetti finanziati, davanti ai ricercatori tedeschi (45 progetti) e francesi (27 progetti). Tuttavia, questi fondi sono investiti principalmente in università estere: l’Italia è in fondo alla classifica dei paesi in cui vengono spesi i fondi, con solo 17 centri di ricerca destinatari dei finanziamenti.
Francesco, uno studente di 22 anni presso l’Università di Calgary, in Canada, è sempre stato consapevole di dover lasciare l’Italia per realizzare il suo sogno di diventare un ricercatore in microbiologia. A Calgary, in parallelo ai suoi studi, Francesco ha avuto l’opportunità di lavorare come ricercatore in uno dei migliori laboratori dell’università, dove viene pagato 1850 dollari canadesi al mese. “In Italia, questo sarebbe considerato pura follia”, commenta. “Rimanere in Canada mi permette di fare ricerca di alta qualità con buone risorse e una remunerazione adeguata, consentendomi di essere economicamente indipendente”, ha detto, “mentre se tornassi in Italia sarei disoccupato, o nel migliore dei casi sottopagato“.
I politici italiani ripetono quanto sia importante riformare il paese affinché i giovani non siano costretti ad andare all’estero e possano immaginare un futuro in Italia. Tuttavia, in pratica, non è stato fatto nessun cambiamento importante. “Per cambiare le cose, dovrebbero essere fatti investimenti significativi e cambiamenti istituzionali; ma nessun politico italiano ha mai deciso di investire nel nostro paese in modo significativo” dice Chantal Saint-Blancat. La sociologa sostiene che la gravità del problema non sta nel fatto che i giovani vogliono andare all’estero e arricchirsi di esperienze internazionali, e che anzi “è normale e giusto che i cervelli si spostino”, ma nel fatto che questi giovani sentano di non poter tornare in Italia, anche se volessero; perché il loro paese non offre loro le stesse opportunità che trovano all’estero; “e questo è colpa delle istituzioni“, sostiene.
Con un’economia lasciata a brandelli dalla crisi del Covid-19, questi cambiamenti radicali non sembrano certo essere in cima all’agenda dei politici italiani. E così, dopo un anno e mezzo in cui l’Italia ha riaccolto molti dei suoi giovani emigrati, la maggior parte di questi si trovano di nuovo negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie del paese, con gli occhi umidi e le valigie troppo pesanti in mano, a salutare un paese che non può offrire loro le opportunità che meritano.
Elena Colonna