“Abbiamo sempre vissuto nel castello” è il romanzo che la musa di Stephen King, Shirley Jackson, ha scritto nel 1962. In linea con la sua produzione dalle tinte horror, la Jackson costruisce la breve trama intorno a un forte senso di claustrofobia, reso in modo particolarmente realistico e tramite un linguaggio semplice, rapido ed efficace, poiché lei stessa era affetta da agorafobia e soggetta a continue crisi nervose.
Il romanzo è raccontato da Merricat, eletta dal Book Magazine del 2002 come uno dei 100 migliori personaggi di fiction del ‘900, poetica e struggente nella sua tragicità. Si tratta di una narratrice bugiarda che accoglie il lettore in un’atmosfera onirica, costantemente confusionaria e quindi mai perfettamente delineabile. La giovane diciottenne si presenta al lettore infondendo una patina di mistero e di surrealismo all’atmosfera in cui man mano ci si sta addentrando:
«Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Costance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare.»
Merricat risiede infatti con sua sorella e suo zio Julian in una grande casa, in completo isolamento. Julian ha bisogno di cure costanti per vari problemi di salute, le due sorelle hanno quindi il compito di stargli vicino e di rassettare e pulire tutta l’abitazione. Le normali faccende domestiche hanno però, sin dall’inizio, qualcosa di sinistro. Il grande affetto e il calore che unisce le ragazze sembra dipingere un universo di quiete e di serenità: appaiono come la classica famiglia del mulino bianco uscita da una fiaba per bambini tra pavimenti di legno scricchiolanti, calde e confortevoli cioccolate e il tepore di un camino sempre acceso. Ma la loro quotidianità, fatta di gesti e compiti da svolgere in modo ciclico e sempre uguale, suggerisce una filigrana ansiogena che non sarà però mai completamente esplicita nel rivelare il loro perturbante segreto.
I tre protagonisti appaiono tutti imprigionati nei loro ruoli (Merricat è un’eterna bambina, Julian un vecchio folle che scrive e aggiorna continuamente il suo diario e Costance è la capofamiglia, poliziotto sia buono che cattivo) e danno vita a una serie di idilli di ordinaria follia, che vanno avanti tutti uguali, da sempre.
Shirley Jackson ci racconta che Costance non ha mai superato il recinto del giardino e sembra che abbia paura di farlo. Resta sempre lì, agorafobica, non esce e forse non è mai uscita da quella gabbia dorata che è il suo locus amoenus, recitando il ruolo portante di sorella maggiore nel suo microuniverso. Dipende quindi da Merricat il sostentamento della famiglia. Quando la ragazza va a fare la spesa, il suo contatto con il mondo esterno è quasi violento: tutto il paese la odia, la trattano come una strega da dover bruciare. Questo perché i familiari di Costance e di Merricat sono tutti morti e, seppur sia stata proclamata innocente, tutti credono che Costance sia l’artefice degli omicidi.
Un’improvvisa rottura dell’equilibrio sopraggiunge quando Charles, un vecchio cugino, bussa alla loro porta apparentemente per aiutarle a superare il vecchio trauma che ha segnato i Blackwood, ma in realtà si scoprirà che vorrà solo appropriarsi della loro cospicua eredità. Mentre il suo ascendete su Costance è davvero molto forte, Merricat vive con estrema sofferenza la sua presenza nel castello:
«Mi sentivo stringere in una morsa, soffocavo e dovetti fuggire [..]. Ascoltai il rumore attutito dell’acqua del ruscello. Non c’era nessun cugino, nessun Charles Blackwood, nessun intruso lì dentro.»
Charles ha violato il loro paradiso e, non a caso, una serie di colluttazioni porteranno un incendio nel castello. Shirley Jackson descrive la distruzione di quell’edificio identificandolo come un tempio, uno spazio che sembra delinearsi come quella che definiamo “zona di comfort”, il luogo (mentale o fisico) in cui ognuno di noi si sente se stesso, non sottoposto ad alcuno sforzo, detto banalmente come “a casa”. Il suo bruciare significa vivere un trauma, essere privati all’improvviso di ogni tipo di sicurezza. I muri che proteggevano l’agorafobica Costance si stanno sgretolando e i suoi concittadini hanno ben deciso di penetrarvi, facendo razzia di tutto ciò che si ritrovano davanti. Quello che era privato (tutti gli oggetti maniacalmente puliti, lucidati ed esposti) è ora in balia di una furia distruttrice esterna ed estranea. In questo episodio Julian perde la vita, mentre Merricat cerca con tutta se stessa di nascondersi e di nascondere sua sorella dalla furia esterna.
È il giardino ora il luogo che dà loro protezione mentre, in questo continuo gioco di contrasti tra ambiente interno ed esterno, dentro fa da padrona la furia distruttrice di persone risentite, alla ricerca di demoni da dover scacciare, streghe da dover simbolicamente eliminare, capri espiatori di una giustizia che non ha mai funzionato.
Ma a morire è stato Julian, un uomo vecchio e malato, un innocente.
Tutti, scoraggiati, abbandonano il castello e con la quiete dopo la tempesta, le due sorelle escono dal loro rifugio, rientrano in casa e ricominciano a rassettarla. Merricat nota che ora, a causa dell’incendio, sembra quasi che la loro casa abbia una torre, come le vere fortezze.
«A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce» è l’opportuna dedica che fa Stephen King alla scrittrice, che anche qui dimostra di essere dotata di una penna profondamente dolce, ma al contempo disturbante e capace di scavare a fondo nella psiche umana.
Shirley Jackson costruisce due personaggi tipicamente novecenteschi, immobili e inetti, uno intrappolato dalle fobie dell’altro: sono sole perché così vuole Merricat, sono prigioniere nella loro stessa abitazione perché Costance non è in grado di sopravvivere al mondo e a tutti i suoi spazi. Come un fantasma sembra appartenere al suo castello, fino a confondersi e a identificarsi con esso, intessendo un gioco ambiguo in cui il lettore si perde nel volerne riconoscere le fattezze sovrannaturali o quelle psicologiche.
In questo quadro, lo zio Julian non era altro che uno sguardo incerto e psicotico del loro passato. Rotto questo legame labile con la loro storia, le due sorelle si rinchiudono in un eterno presente, ancor più terrorizzate dal mondo esterno violento e irruento.
Alessia Sicuro