Sessualità, percezione del dolore e oggettificazione delle donne
Fonte: Marco Verch Professional Photographer- flickr.com

Intorno alla sessualità ruotano ancora molteplici tabù e tanta disinformazione che hanno conseguenze devastanti, in modo particolare, sulla salute psico-fisica delle donne o delle persone socializzate tali. Ancora oggi, le donne sono oppresse dal modello sessuale patriarcale, e proprio da ciò hanno origine due fra le conseguenze più drammatiche. Una di queste è l’annichilimento della dimensione del piacere, inteso quale forza creativa e liberatrice, dunque l’impossibilità di impostare un qualsiasi discorso autentico sull’eros, perché ciò significherebbe mettere in discussione la visione ormai millenaria della donna quale madre, moglie, casalinga priva di desideri. L’altra conseguenza, più subdola e frutto del mancato riconoscimento della donna quale soggettività con dei propri autonomi bisogni, è l’invisibilizzazione di alcune condizioni patologiche che riguardano la sua salute fisica e sessuale e la normalizzazione del dolore che ne consegue, in quanto percepito quale parte integrante dell’esperienza di ogni donna.

Malattie invisibili e normalizzazione del dolore

Sono numerose le patologie invalidanti, dolorose e spesso estremamente costose da curare, come la vulvodinia, la neuropatia del pudendo o la fibromialgia, che colpiscono in prevalenza le donne e che mancano di un adeguato riconoscimento da parte dello Stato e del Servizio Sanitario Nazionale. «Anche le tutele per le persone che soffrono di endometriosi sono parziali e i tempi per arrivare ad una diagnosi sono lunghissimi. I ritardi nella diagnosi, la normalizzazione del dolore e la poca formazione del personale medico, sono dovuti principalmente a fattori socio-culturali. Inoltre, i costi per le visite specialistiche, per i farmaci e per le ore perse di lavoro, sono tutte a carico delle donne». 

Inoltre, a dispetto della poca attenzione attribuita all’incidenza di queste patologie, a cui consegue l’invisibilizzazione delle stesse, come riportato nella proposta di legge concernente l’adozione di disposizioni per la tutela delle donne con endometriosi presentata alla Camera lo scorso gennaio: «Attualmente almeno 190 milioni di persone nel mondo sono affette da endometriosi durante l’età fertile. In Italia è affetto da endometriosi circa il 10-15 per cento delle donne in età riproduttiva e nel 30-50 per cento dei casi essa si associa a infertilità.» Inoltre, «si stima un ritardo diagnostico che va da otto a dodici anni, pari al periodo che intercorre tra la manifestazione dei primi sintomi e la formulazione della diagnosi. Spesso durante questo lasso di tempo si assiste all’aggravamento della patologia e all’aumento dei sintomi. Spesso la persona affetta da questa patologia non si sente compresa perché il suo dolore è sottovalutato: la sottovalutazione del proprio dolore, associato al ritardo diagnostico, può creare disturbi psichici come ansia, depressione, disturbi del ritmo sonno-veglia».

La dimensione di genere, dunque, risulta centrale nell’invisibilizzazione di queste patologie. Le donne che ne soffrono si sentono incomprese, vengono lasciate sole nell’affrontare una malattia a cui spesso non sanno neppure dare un nome per via della mancanza di personale sanitario qualificato adeguatamente formato che sia in grado di rinvenire l’origine del loro patimento. Inoltre, si tratta di condizioni mediche che influiscono negativamente sulla vita sessuale delle donne, in quanto possono rendere dolorosi i rapporti sessuali, i quali, per giunta, in un contesto fortemente patriarcale vengono considerati qualcosa di imprescindibile e doveroso in una relazione monogama stabile.

La normalizzazione del dolore percepito per via, di un rapporto sessuale, di una patologia, del ciclo mestruale o del parto può essere considerata una vera e propria forma di violenza nei confronti delle donne. Si sottende che la condizione politico-sociale, ma anche psico-fisica delle donne, debba essere inevitabilmente pregna di angoscia e di dolore.

Normalizzazione del dolore e oggettificazione delle donne

La ricerca medico-scientifico, dunque, risulta essere influenzata da una certa tradizione culturale improntata su principi patriarcali al punto che, alcuni collettivi femministi affermano, in relazione al sapere ginecologico, che si tratti di una forma di “medicina patriarcale” che, in forza di stereotipi e pregiudizi culturali sulle donne, risulta lesiva per la salute psico-fisica di queste soggettività. Questo perché: «indagando solo la dimensione riproduttiva, la ginecologia conserva le proprie mancanze, coerente con la tradizione patriarcale che riconosce nella funzione riproduttiva la valenza e il contributo sociale di maggior rilievo delle donne».

Nell’atto sessuale la donna è solo oggetto del piacere, ha una funzione strumentale e un ruolo ben definito. In tal senso, risulta ancora attuale il lavoro di Carla Lonzi in La Donna Clitoridea e la Donna Vaginale, un testo nato per spiegare come storicamente alle donne sia stata «imposta una coincidenza tra meccanismo di piacere e meccanismo di riproduzione che non c’è». Il ruolo della donna risulta essere principalmente quello procreativo; ella è funzionale alla riproduzione della specie e della famiglia. Fuori da questa collocazione categoriale, la donna non esiste; non è ancora un soggetto autonomo al quale riconoscere propri bisogni e desideri. Rompere ogni possibilità di categorizzazione dell’individuo e del suo ruolo nel mondo risulta ancora difficoltoso e destabilizzante, ed è proprio questo il motivo per cui l’uscita della donna dagli schemi e dai ruoli che le sono sempre stati imposti può essere la causa dell’aumento delle violenze nei suoi confronti, in quanto la sua emancipazione risulta ancora ardua da accettare.

Scrive ancora Carla Lonzi, femminista teorica dell’autocoscienza e della differenza sessuale nella sua opera: «Godendo di un piacere come risposta al piacere dell’uomo la donna perde sé stessa come essere autonomo, esalta la complementarietà al maschio, trova in lui la sua motivazione di esistenza. La cultura sessuale patriarcale, essendo rigorosamente procreativa, ha creato per la donna un modello di piacere vaginale», infatti, «il piacere vaginale è il piacere ufficiale della cultura sessuale patriarcale», nonostante questo non sia il coronamento nell’eros per la donna.

Al centro della cultura patriarcale vi è un binarismo di pensiero senza eguali: «la coppia patriarcale è la coppia pene-vagina, marito e moglie, padre e madre della cultura animale-procreativa: il loro rapporto non è stato determinato in base al funzionamento del sesso, ma in base al funzionamento della procreazione a cui il sesso femminile è stato subordinato. La donna vaginale è il portato di questa cultura: è la donna del patriarca e la sede di ogni mito materno, la donna schiava che tramanda la catena delle soggezioni da cui il dominio maschile è stato reso permanente in qualsiasi mutamento storico».

Appare evidente come la scarsa considerazione del dolore delle donne, delle specificità del loro corpo e dei loro sintomi produca danni tangibili e considerevoli. Tra normalizzazione del malessere vissuto dalle donne e continue accuse di vittimismo e teatralità, vengono perpetrate nei loro confronti forme di oppressione e di violenza dal punto di vista medico-sanitario che non possono essere ignorate.

Celeste Ferrigno

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