Foto di Hermann Spurzem, 1929-1930 ca. Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Insel_Helgoland_um_1929-30_color.jpg

“Il 18 aprile del 1947, sull’Isola Sacra, l’isola di Helgoland, la marina inglese fa esplodere seimilasettecento tonnellate di dinamite, residuo del materiale bellico abbandonato dall’esercito tedesco. È probabilmente la più grande esplosione realizzata con esplosivi convenzionali. Helgoland è totalmente distrutta. Quasi l’umanità cercasse di cancellare lo strappo nella realtà aperto dal ragazzo sull’isola.”

Questa recensione lascerà parlare soprattutto il suo stesso autore di cui prenderò stralci, citazioni, commenti. Questo perché si maneggiano concetti incandescenti, difficili da penetrare per un profano, che per sua sfortuna potrebbe persino restarne bruciato fingendo una disinvoltura che non ha; eppure va subito precisato quanto Carlo Rovelli (studioso di fisica teorica, divulgatore eccellente i cui libri sono tradotti in tutto il mondo) riesca nell’impresa di illuminare per un attimo un pozzo senza fondo di cui ancora non capiamo niente: quello della meccanica quantistica, la più grande rivoluzione scientifica di cui abbiamo memoria secondo alcuni. L’esplosione da cui derivano i computer quantistici e la bomba atomica – dopo la quale nulla per l’umanità è stato più lo stesso. Un boccone indigeribile che ancora cerchiamo a fatica di deglutire e che portò personalità enormi come Albert Einstein e Niels Bohr a dialogare in punta di fioretto per anni sul principio di indeterminazione, in quello che è considerato il più importante dei duelli tra scienziati; ma non è solo nella sfera scientifica che si è discusso e si discute di quanti: si pensi allo scontro clamoroso tra Lenin e il difensore delle idee di Mach, Bogdanov (personalità di raro fascino, quest’ultimo) su materialismo e idealismo – per dire quanto tutto ciò abbia implicazioni importanti anche sul versante politico e filosofico.

Insomma: che lo si voglia o meno la meccanica quantistica riguarda tutti. Ma che cosa sia questa meccanica quantistica, come funzionino i quanti, a cosa servano, perché servono: questo siamo ancora lontani dal comprenderlo e forse non lo capiremo mai. È lo stesso Rovelli ad ammetterlo candidamente: si, la fisica quantistica è un campo sul quale non capiamo ancora niente. Neanche noi che ci lavoriamo. E qui sta il suo enorme fascino, le sue infinite possibilità potenziali.
Helgoland è un libriccino di poche pagine e contenuti vertiginosi uscito per la Adelphi, che prova a spiegare nella maniera più chiara possibile le implicazioni che la fisica moderna ha su tutti noi. Lo fa partendo dall’assunto che la chiarezza in questo campo è impossibile: dovremo brancolare nel buio appigliandoci alle poche certezze che abbiamo al momento.
Ma partiamo dal titolo: chi o cosa è Helgoland?

Helgoland
Copertina di Helgoland.
Fonte: https://www.adelphi.it/libro/9788845935053

Helgoland è un arcipelago del Mare del Nord. In tedesco significa “Terra sacra”. Helgoland è un mistero di solitudine, spoglio ed essenziale come tutti quei posti lontani dai mondi conosciuti: il luogo ideale dove trovare risposte che altrove non riusciamo a scovare. Fu qui, “su quest’isola spoglia, estrema, battuta dal vento del Nord”, che “Werner Heisenberg ha sollevato un velo fra noi e la verità; oltre quel velo è apparso un abisso”. Aveva solo 23 anni e a Helgoland il giovane scienziato tedesco distrusse la realtà come era stata concepita fino a quel momento basando le sue idee radicali su calcoli spericolati, spinto da un clima fertile e creativo come pochi in ambito scientifico.

I ritiri “spirituali” di grandi scienziati, matematici e logici sono una prassi più consueta di quel che si potrebbe pensare, al di là della patina romanzesca che sembra ricoprire la decisione di allontanarsi dal mondo per pensarlo meglio, decifrandolo così senza strepiti e rumori: anche Ludwig Wittgenstein tra il 1913 e il 1914 si rinchiuse in una capanna sul fiordo norvegese di Skjolden per trovare una soluzione ai dilemmi sul suo trattato sulla Logica ancora in pieno work in progress. A nulla valsero le rimostranze dell’amico e maestro Bertrand Russell, convinto che in Norvegia il suo pupillo Wittgenstein sarebbe impazzito arrivando al suicidio: “Gli dissi che sarebbe stato buio e mi rispose che detesta la luce del sole. Gli dissi che sarebbe stato completamente solo e mi rispose che si prostituiva l’intelletto parlando con la gente intelligente. Gli dissi che era pazzo e mi rispose ‘Dio mi protegga dalla saggezza’ “. (da Wittgenstein di Ray Monk)

Heisenberg nel 1924.
Fonte immagine: https://en.wikipedia.org/wiki/File:Heisenberg,Werner_1924_G%C3%B6ttingen_-_adjusted.jpeg

È probabile che Heisenberg non avesse lo stesso carattere impossibile e ai limiti del crollo nervoso di Ludwig Wittgenstein; certo sappiamo dalle sue lettere che quel ritiro su Helgoland del 1925 non fu semplice: soffriva di una forte allergia, dormiva pochissimo. Soprattutto calcolava, calcolava in continuazione. Cercava di giustificare i primi salti quantici rilevati dal suo maestro Niels Bohr, un problema che lo tormentava febbrilmente: “Perché solo quelle orbite? Che cosa sono questi incongrui «salti» da un’orbita all’altra? Quale forza sconosciuta può guidare un elettrone a seguire un comportamento così bizzarro?”. Nessuno lo sapeva. Fino a quando Heisenberg ha un’idea geniale: Cambiamo invece il modo di pensare l’elettrone. Rinunciamo all’idea che un elettrone sia un oggetto che si muove lungo una traiettoria. Rinunciamo a descrivere il moto dell’elettrone. Descriviamo solo ciò che osserviamo dall’esterno: intensità e frequenza della luce emessa dall’elettrone. Basiamo tutto solo su quantità che siano osservabili. Questa è l’idea. Alle tre di notte del 7 giugno qualcosa inizia a tornare nei suoi calcoli. La “nuova meccanica quantistica” era coerente. Heisenberg, a Helgoland, aveva appena cambiato il modo di approcciarsi al mondo per sempre: la fisica classica viene praticamente mandata in pensione.

La prima parte del libro di Carlo Rovelli (di cui qui sono semplificate solo le primissime pagine) è tutta dedicata alla storia della nuova scoperta di Heisenberg e al suo lavoro con i giovanissimi colleghi della Knabenphysik, “la fisica dei ragazzi” come venne apostrofata (Heisenberg, Dirac, Pauli e Jordan sono tutti dei ventenni), al suo impatto sul mondo, alle controversie e alla ricezione anche distorta che provocò nella comunità scientifica. Incontriamo svariati grandi nomi anche famosi, da Einstein a Schrödinger con il suo famoso e usurato gatto nella scatola. Un bel ripasso che si potrebbe condensare in queste poche, ma enigmatiche, righe:
La teoria dei quanti prevede granularità, salti, fotoni, e tutto il resto, sulla base di una sola equazione di otto caratteri aggiunta alla fisica classica. Un’equazione che dice che moltiplicare posizione per velocità è diverso che moltiplicare velocità per posizione. L’oscurità è totale. Forse non è un caso che Murnau abbia girato scene di Nosferatu a Helgoland.

Carlo Rovelli
Carlo Rovelli.

Fonte: https://www.nytimes.com/2016/03/23/books/review-seven-brief-lessons-on-physics-is-long-on-knowledge.html

Nella seconda parte del libro Rovelli inizia invece ad andare sul suo personale, ad illustrare le varie teorie controverse attorno al mondo quantistico (dai mondi multipli che tanta fortuna hanno avuto anche al cinema alle variabili nascoste, per arrivare al collasso fisico della funzione d’onda). Sono tutte teorie e possibilità da mal di testa, eppure Rovelli è un divulgatore esperto: traduce il linguaggio scientifico in maniera semplice ma mai banale perché credo sia tempo di guardare in faccia questa teoria, discuterne la natura fuori dalle cerchie ristrette dei fisici teorici e dei filosofi, calarne il miele distillato, dolcissimo e un po’ intossicante, nelle maglie dell’intera cultura contemporanea.

Fino ad arrivare al cuore pulsante di Helgoland, che a dispetto di come è stato pubblicizzato non è (solo) la storia della nascita della fisica quantistica for dummies, ma pone al centro del discorso il concetto di relazioni e di entanglement, “il fenomeno per cui due oggetti distanti fra loro, per esempio due particelle che si sono incontrate nel passato, conservano una sorta di strano legame, come potessero continuare a parlarsi”.
Evitando le buche della retorica più sentimentale, Rovelli continua a scrivere di fotoni, della centralità del concetto di osservazione e di esperimenti, per mettere sul banco le conseguenze filosofiche di tutto questo. Per poterlo fare recupera una cassetta degli attrezzi concettuale preziosa: passa dalla filosofia occidentale, sia la classica (Eraclito, Platone, Aristotele) che quella analitica per arrivare, a dispetto dello stigma new age che si porta dietro, a quella orientale. Si tratti di buddhismo Māhāyana o del Mūlamadhyamakakārikā del monaco indiano Nāgārjuna, i concetti di interdipendenza, vacuità o coproduzione condizionata sono necessari non tanto per trovare una conferma spirituale alle domande poste dalla scienza, quanto per spazzare via il terreno da ogni dubbio metafisico: Rovelli si limita a dire che queste domande che ci poniamo oggi sono antiche, più antiche di quel che potevamo sospettare, e che attraversano tutto il globo, da Oriente a Occidente. E che quindi vale la pena continuare a dialogare, a discuterne. Anche quando non sembriamo capirci nulla. Soprattutto quando non ci capiamo niente.

Per poterlo fare, però, dobbiamo lasciarci alle spalle ogni preconcetto metafisico o idealismo, dualismo e –ismi di varia natura che assumono il mondo come già dato, e trarre piuttosto le nostre conclusioni momentanee su ciò che possiamo osservare, misurare, quantificare. È qui che Rovelli tira i fili del discorso sul concetto di relazione, in una conclusione magari romanticizzata (Rovelli mappa il mondo attraverso la fisica, naturale che per lui non possa esserci altro “al di fuori” di questo), ma che assume un senso misterioso, misterioso quanto la realtà. È forse questo il motivo per cui da alcune parti sono arrivate accuse di metafisica al fustigatore della metafisica. Ma il discorso alla base di Rovelli resta valido: la realtà è una serie di eventi che tessono una rete di relazioni di cui l’ente è un nodo effimero. Un ente determina la propria proprietà solo in relazione a qualcos’altro. Il perché resta un mistero ma è così che strutturiamo una visione del mondo più coerente: questo sembra suggerirci la fisica quantistica e questo ci suggerisce Helgoland. Un senso di apertura verso le possibilità insite in una teoria scientifica che siamo lontani dal comprendere, ma che è indubbiamente anche apertura verso l’altro, verso il mondo.


Lo spirito «antimetafisico» che Mach ha promosso è un atteggiamento di apertura: non cerchiamo di insegnare al mondo come debba essere. Stiamo piuttosto ad ascoltare il mondo, per farci insegnare da lui come meglio pensarlo.
Quando Einstein obietta alla meccanica quantistica che «Dio non gioca a dadi», Bohr gli risponde: «Smettila di dire a Dio cosa deve fare». Fuori di metafora: la Natura è più ricca dei nostri pregiudizi metafisici. Ha più fantasia di noi.

Uno dei filosofi che più acutamente ha esaminato la teoria dei quanti, David Albert, mi ha chiesto una volta: «Carlo, come puoi pensare che esperimenti fatti con pezzetti di metallo e di vetro in un laboratorio possano avere tanto peso da mettere in dubbio le nostre più radicate convinzioni metafisiche su come è fatto il mondo?». La domanda mi ha a lungo inseguito. Alla fine però la risposta mi sembra semplice: «E cosa sono “le nostre più radicate convinzioni metafisiche” se non anch’esse solo qualcosa che ci siamo abituati a creder vero, appunto maneggiando sassi e pezzi di legno?».

I nostri pregiudizi su come sia fatta la realtà sono il risultato della nostra esperienza. La nostra esperienza è limitata. Non possiamo prendere per oro colato le generalizzazioni che ne abbiamo fatto in passato. Nessuno lo dice meglio di Douglas Adams con la sua ironia: «Il fatto che noi viviamo sul fondo di un profondo pozzo di potenziale gravitazionale, sulla superficie di un pianeta ricoperto di gas che gira intorno a una palla di fuoco nucleare appena 90 milioni di miglia più in là, e pensiamo che questo sia “normale”, è una certa indicazione di quanto distorte tendano a essere le nostre prospettive».”

Nicola Laurenza

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