Martedì 25 settembre al Centro culturale Ararat c’è movimento. Chiacchiere, volti vecchi e nuovi, curdi e non solo, tutti riuniti per l’arrivo di Sherwan Bery e Jamila Hami. Due nomi che alla maggior parte dei cittadini europei non diranno nulla, ma che significano molto per chi vive in Kurdistan e in particolar modo in Rojava (nord-est della Siria). Sherwan e Jamila sono, infatti, i due co-presidenti della Mezzaluna Rossa Curda, associazione umanitaria in prima linea nella guerra in Siria nei cantoni del Rojava.

La Mezzaluna Rossa Curda è in realtà nata in Germania nel 1993, come organizzazione di supporto per i curdi e ponte di solidarietà internazionale fra chi stava in Europa e chi ancora viveva in Kurdistan. Soltanto nel 2012 l’associazione inizia ad operare anche in Rojava nel bel mezzo della guerra in Siria ed oggi è diventata un faro di solidarietà e partecipazione dal basso, esempio di un modello alternativo di solidarietà.

La Mezzaluna Rossa Curda in Rojava: solidarietà internazionale e partecipazione della popolazione

È la prima volta che i due co-presidenti della Mezzaluna Rossa Curda (Heyva Sor a Kurdistanê in kurmanji) vengono a Roma, dove c’è una folta comunità curda che si ritrova nel centro Ararat, quartiere Testaccio. Il primo a prendere la parola è Sherwan Bery, che racconta com’è nata l’organizzazione in Rojava: pochissimi mezzi e pochissime persone, ma tanto bisogno di aiuto.

Era infatti il 2012, la guerra in Siria era soltanto all’inizio ma aveva già portato con sé tutto ciò che la parola guerra significa. «Abbiamo iniziato da una piccola città del Rojava: avevamo una sola ambulanza, che in realtà era una macchina adibita ad ambulanza e raccoglievamo i medicinali dalle case delle persone per condividerli con chi ne aveva bisogno», spiega Sherwan, ponendo l’accento sulle difficoltà dei primi tempi dovuti anche all’embargo economico che non permetteva che nulla arrivasse in Siria.

«Abbiamo mobilitato anche tantissime donne, che preparavano migliaia di pasti al giorno per gli sfollati, per chi scappava dalla guerra e arrivava nella nostra regione; allo stesso modo abbiamo coinvolto i medici ancora presenti in Rojava, convincendoli che eravamo noi a dover lottare in prima persona per aiutare e aiutarci». Tutto si basava sulla condivisione; ognuno dava ciò che poteva.

La Mezzaluna Rossa Curda adesso è un punto di riferimento per la popolazione, ma non soltanto per l’aiuto umanitario. È anche parte integrante del modello di liberazione del movimento curdo, il confederalismo democratico. È nata dal basso, dallo sforzo di pochi, ed è riuscita a coinvolgere la popolazione, che è composta non solo da curdi ma anche da arabi, assiri, armeni, ceceni e yazidi.

La popolazione stessa si è fatta carico della sua salvezza e anche grazie alla solidarietà internazionale è riuscita nell’ultima impresa: «Il nostro ultimo sforzo è stata la costruzione dell’ospedale di Tall Temir che abbiamo dedicato ad Alina Sanchez, combattente argentina dello YPJ. Lo abbiamo costruito grazie alle mani e al sudore della popolazione, che tutta si è messa a lavorare per portarlo avanti».

La Mezzaluna Rossa Curda non è solo per i curdi 

«Abbiamo vissuto una guerra barbarica in Siria, ma nonostante tutto molti sono scioccati dal fatto che siamo riusciti a resistere e ad organizzare la popolazione dal basso». A parlare è Jamila Hami, recentemente eletta co-presidente della Mezzaluna Rossa Curda. Una donna che – ci tiene a sottolineare lo stesso Sherwan – è sempre stata in prima linea, dalla liberazione di Kobane all’attacco ad Afrin. E che, scherza anche, forse «è la più malata di tutte, perché ha visto qualsiasi cosa la guerra possa produrre».

Eppure non c’è un filo di tremore o stanchezza nella sua voce. «Siamo riusciti ad aiutare la popolazione prima di tutto in campo umanitario, abbiamo fronteggiato non solo la guerra vera e propria ma anche gli attacchi terroristici e la gestione di campi per sfollati e rifugiati; ma poi abbiamo mobilitato anche la popolazione in progetti di ambito sociale e culturale».

Dal momento che l’associazione nasce e si sviluppa in seno al confederalismo democratico, non possono mancare due elementi portanti: le donne e la convivenza dei popoli. «Le donne sono molto attive, che siano esse barelliere, infermiere, dottoresse o semplici operatrici; non è un caso che l’ospedale di Tall Temir sia stato dedicato a Lêgerîn (Alina Sanchez) che non solo era una combattente ma aveva anche un ruolo importante nella gestione del sistema sanitario».

E poi c’è il principio fondamentale che ogni persona è prima di tutto… un essere umano. Qualcosa che l’Italia di Salvini ha dimenticato, ma che Jamila ribadisce: «Siamo stati criticati, ci hanno detto che aiutavamo solo i curdi ma non è vero». Il 60% delle zone liberate sono arabe, tanto per fare un esempio. E poi dice una frase, che qualcuno potrebbe faticare a capire:

«Noi ci prendiamo cura anche dei miliziani feriti di Daesh, perché non puoi fare distinzioni durante la guerra, e ora ci stiamo occupando dei 1200 bambini e delle 500 donne che erano parenti di Daesh e ora sono rimasti soli nei campi profughi».

Parole ancora più significative se si pensa che la vendetta, durante la guerra, è un gioco facile. Sherwan, infatti, ci racconta di quando proprio nella cittadina di Tall Temir appena liberata vi fu un attacco di Daesh che provocò 50 morti e un centinaio di feriti, colpendo anche un ospedale e un bazar. Daesh non dimentica e non accetta la sconfitta. Daesh della vendetta – soprattutto quella sui corpi delle donne – fa bandiera e gloria. 

Dopo Afrin la strada però è lunga

Quello che è successo lo scorso inverno ad Afrin – e ciò che sta succedendo tuttora, con miliziani dell’Isis che torturano chi è rimasto nel cantone – getta però un’ombra sugli sforzi della Mezzaluna Rossa Curda e sul modello del confederalismo democratico in Siria del Nord. La politica perpetrata da Turchia, Iran e Russia (che dà un tacito assenso alle operazioni di Erdoğan nell’area) è quella di un «annientamento totale del modello curdo».

Jamila e Sherwan sono consapevoli delle difficoltà che verranno, ma sono provati da 6 anni di guerra e sono certi che resisteranno ancora, questa volta con delle forze diverse: «Oggi abbiamo 600 lavoratori fissi, 20 ambulatori e 45 ambulanze. Abbiamo progetti di supporto per la popolazione nelle zone liberate, cerchiamo anche di partecipare alla ricostruzione della società, pensando a quando saremo liberi».

Elisabetta Elia

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