Senza ombra di dubbio referendum sarà la parola chiave per leggere il 2016. Referendum, che certi casi si declina ballottaggio, in certuni plebiscito, in certi altri come opzione tra due alternative entrambe con molte ombre.
Referendum declinato in ballottaggio sarà in Austria il 4 dicembre, allorché gli austriaci saranno chiamati a ripetere la scelta presidenziale tra il candidato della destra populista Hofer ed il “meno peggio” verde Van der Bellen, che a sorpresa aveva superato i candidati socialdemocratico e popolare. Il voto espresso a maggio, infatti, secondo la Corte Costituzionale viennese era stato viziato da brogli, che avevano aiutato il candidato verde ad imporsi.
Il 2 ottobre, sulla riva ungherese del Danubio, toccherà a Viktor Orbán raccogliere i frutti del referendum sull’introduzione delle “quote migranti” nell’Unione Europea, con il quale potrà presentarsi a Bruxelles forte di una legittimazione popolare a non approvarle. Con la tacita compiacenza, peraltro, del liberale blocco nordico e del non più “solidarność” blocco orientale. Il tutto, va rilevato, mentre Monsieur Hollande è in frizione con Londra anche a causa della questione degli accampati a Calais, e mentre Frau Merkel è alle prese con i responsi amministrativi alle proprie politiche ai livelli federale e comunitario, con le elezioni in vista nel 2017 e la bolla Deutsche Bank pronta a scoppiare indebolendo la credibilità tedesca già minata dallo scandalo Volkswagen.
È referendum tanto “semplice” quanto quello che si è tenuto in quella componente federale della Bosnia ed Erzegovina che risponde al nome di Repubblica Srpska, che altro non vuol dire se non “dei Serbi”. Il plebiscito sul quale si è espressa la cittadinanza domenica 25 settembre riguardava l’opportunità di istituzionalizzare quella che già informalmente è celebrata come “giornata della proclamazione dell’indipendenza” dalla stragrande maggioranza serba di un territorio diviso etnicamente con gli accordi di Dayton del 1995. Ha vinto, come prevedibile, il sì, con una percentuale bulgara che si aggira intorno al 99.8% dei votanti.
L’analisi di alcuni commentatori americani, come quella di Kurt Bassuener del Democratization Policy Council comparsa su La Stampa del 26 settembre (e a questo link leggibile), appare come poco equilibrata nell’alimentare l’immagine di una nuova guerra civile in Bosnia, a 21 anni dalla fine dell’ultima. La riorganizzazione dei territori che furono della Jugoslavia, passata senza particolari traumi dall’essere un regno retto da una dinastia serba all’essere una repubblica federale socialista guidata da un croato, morto il quale le tensioni etniche anti-serbe sono esplose dapprima nel Kosovo, intorno alla metà degli anni Ottanta, e successivamente in Croazia. Certo non è da stupirsene, se ancora oggi si esaltano come eroico gesto di ribellione le violenze dello stadio Maksimir di Zagabria del 13 maggio 1990, e se sulle tensioni etniche si foraggia una politica estera adatta a mantenere la tensione per poter difendere con arrogante potenza i propri interessi.
Anche sul referendum della Brexit, o su quello che potrebbe essere paragonato ad un referendum istituzionale tra Trump e Clinton, è stata operata una semplificazione esagerata ed una banalizzazione, una reductio ad bonum (oppure ad malum) delle persone e dei loro argomenti, senza però entrare nel merito. Sarà un caso, ma sono operazioni che appaiono frequenti oltre ogni ragionevole misura tra i media d’oltreoceano, almeno quanto tra i media nostrani, ed è ciò che dovrebbe colpire l’opinione pubblica. D’altronde però, e questo è un campanello d’allarme forse maggiore, la stessa utenza media non chiede con sufficiente forza che si scenda nel merito, che si approfondisca senza le lenti della parzialità, che siano proposte con pari dignità due o più versioni. Non allinearsi al pensiero imposto, poter pensare con la propria testa diventa difficile, e provoca intolleranza nei confronti di un sistema mediatico ingiusto.
Rimangono tuttavia interessanti alcune dinamiche che caratterizzano i recenti referendum, sia quelli in senso proprio che i voti all’idea di referendum assimilabili. Andando oltre il dato relativo all’affluenza, leggibile anche – ma non solo – come scarso interesse o come scarsa conoscenza, è innegabile come gli elettori usino i referendum per inviare messaggi politici sul piano interno alla classe dei politici e dei militanti. È altresì vero, del resto, che i governanti propongono referendum pressoché plebiscitari, o financo spingono alla personalizzazione quasi bonapartista del voto, per dare prove di forza ora sul piano interno, ora sul palcoscenico internazionale, e presentarsi agli occhi del pubblico o delle istituzioni come soggetti fortemente legittimati “per Grazia di Dio e volontà del Popolo”.
Occorre tuttavia una riflessione circa l’eventualità della sconfitta di un governante in un referendum o in una consultazione analoga: quali sono le conseguenze?
Allorché Cameron fu sconfitto nel referendum sulla Brexit da lui stesso promosso e concesso quale spavalda prova di forza, valutabile come fallimento politico, il primo ministro britannico optò per le dimissioni: comprese di aver danneggiato l’interesse nazionale e si fece da parte, evitando di causare danni maggiori.
I recenti fallimenti della CDU di Angela Merkel nelle elezioni nei Länder tedeschi, ultimi casi quelli di Berlino, Meclemburgo-Pomerania Anteriore, Sassonia, Baden-Württemberg e Renania-Palatinato, non hanno portato a sensibili modifiche nelle politiche della Cancelleria di Berlino, o quantomeno non sono state avvertite granché in sede internazionale.
Due esempi contrapposti, quelli di Cameron e Merkel, che non possono non portare a domandarsi quale sarebbe la reazione di Renzi ad una eventuale sconfitta nel referendum costituzionale del 4 dicembre.
Se in principio Renzi aveva legato con sicumera le sorti del proprio governo a quelle del referendum, promettendo eventuali dimissioni in caso di sconfitta certo di vincere il plebiscito, più di recente il Segretario del PD ha compiuto una retromarcia, facendo intendere che la riforma costituzionale non è così fondamentale nelle sue politiche di governo. Non si comprende, allora, perché investire così tante energie ed alimentare così tante polemiche per un qualcosa di non così centrale.
Simone Moricca