NAPOLI- Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, è stato condannato in primo grado per abuso d’ufficio a 1 anno e 3 mesi, e uno dei decreti legislativi della legge anticorruzione (legge Severino) prevede che per i sindaci possa scattare la sospensione, anche se la condanna non è definitiva.
«Sono innocente» si difende, torna in tv, ad Agorà su Rai 3, e attacca: «La sospensione è a termine, quindi sarà per poco tempo ma io non mi dimetto, non decado, sarò ancora più per strada. Se qualcuno ritiene che la legge Severino debba essere applicata al mio caso l’applicherà, poi ci sarà la sospensione ed io continuerò a fare il sindaco sospeso».
Ma con queste parole non fa altro che stringere di più la corda che gli è stata messa al collo. Da ex magistrato quale è, il sindaco dovrebbe ben sapere che la legge è uguale per tutti, e che per tutti gli innocenti vi è il diritto di professarsi tali, lasciando che il caso trovi il suo sbocco naturale in un buon avvocato e nel ricorso in appello. Ma, fino all’assoluzione d’appello (per evitare di ricorrere alla sospensione – poco decorosa – della legge Severino) deve dimettersi. Perchè il rispetto della Costituzione è stato il pilastro della sua politica, sia da sindaco che da pm, e continuando ad attaccare la sentenza che lo ha condannato e a ripetere che “non vuole essere sospeso come il caffè” rischia di riportare alla mente le parole di un certo Cavaliere, un déjà-vu (si spera) poco gradito agli italiani.
Facendo un passo indietro alla sentenza, è giusto domandarsi perchè De Magistris continui ad accusare di ingiustizia la magistratura, cercando di capire le motivazioni della condanna. Ed i vaneggiamenti dei vari quotidiani, che parlano di “intercettazioni illegali” di un “elenco sterminato” di parlamentari spiati in modo meschino da Genchi, sicuramente non aiutano a fare chiarezza sui fatti, che sono già di per sè noti a pochi.
De Magistris è stato processato per essere entrato in possesso di tabulati telefonici, non per il loro contenuto.
“Nel 2007, su mandato del pm De Magistris, Genchi acquisì dalle compagnie telefoniche i dati su centinaia di tabulati, incappando – ma questo lo si scoprì solo alla fine – anche in quelli di cellulari in uso, secondo l’accusa, a 8 parlamentari (Prodi, Mastella, Rutelli, Pisanu, Gozi, Minniti, Gentile, Pittelli)” scrive Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano “di qui l’accusa di averli acquisiti senz’avere prima chiesto al Parlamento il permesso di usarli, violando la legge Boato e l’immunità dei suddetti.”
Ma il sindaco era davvero a conoscenza dell’identità delle persone a cui appartenevano quei numeri di telefono? A quanto pare no, ed il tribunale, non spiegandosi come De Magistris e Genchi domandassero ai gestori telefonici di chi fosse questo o quel numero, ha sentenziato: abuso d’ufficio.
“Questo fra l’altro – continua Travaglio – non è più reato dal ’97, salvo che produca un “danno ingiusto” o un “ingiusto vantaggio patrimoniale”. E quale sarebbe il danno patito dagli 8 politici? La “conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni”. Cioè: c’era la possibilità che si sapesse con chi telefonavano.”
Camilla Ruffo