Yes_band. Fonte immagine: pixabay
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John Roy Anderson nasce il 25 ottobre del 1944 ad Accrington, nord dell’Inghilterra. Di famiglia non proprio benestante, a quindici anni lascia la scuola per dare una mano all’economia di casa. È un ragazzo ambizioso e nonostante tutto, cerca di costruirsi una cultura per sfuggire al grigiore circostante; ha la passione per la musica che trova sfogo nel rock’n’roll e i crooner americani, anche se la prima band che lo incanta sono gli Everly Brothers, da cui nasce la sua ossessione per le armonie vocali.
A diciotto anni entra in una band locale chiamata Warriors con il fratello Tony (con cui mette a punto i primi intrecci vocali), il batterista Ian Wallace ed il bassista David Foster. Il gruppo esegue molte cover e pur durando diversi anni, non va più in là dei locali di provincia. Nel 1967 trascorre un periodo in Germania, dopodichè rientra a Londra. Lì inizia a frequentare La Chasse, vicino al Marquee. Conosce il proprietario del locale, il quale si rende conto delle sue potenzialità e lo assume come cantante. In più incontra Paul Korda, che lavora alla Emi e gli fa incidere un paio di 45 giri con lo pseudonimo di Hans Christian. Nel marzo del ’68, si imbatte in uno spilungone di nome Chris Squire, bassista e cantante che ha sciolto da poco il suo gruppo, i Syn.

Squire ha un’impostazione classica e ha cantato per anni in un coro, la sua passione per il rock anche se recente, l’ha letteralmente sommerso. Parlando i due scoprono di avere molti gusti in comune, in particolare per le band capaci di fare dell’armonia vocale un punto di forza.
Non passa molto che il duo Anderson-Squire è già in sala prove. Il nucleo degli Yes è una realtà, il resto ha bisogno di appena qualche mese per venire assemblato, arrivano il chitarrista Peter Banks faceva parte dei Syn insieme a Squire (che pensa bene di richiamarlo),Tony Kaye ed il batterista Bill Bruford.

Come per molte fra le più grandi band, non solo del rock, la potenza degli Yes consiste nell’essere riusciti a far coesistere in un delicato equilibrio, tra diverse formazioni culturali, diversi gusti musicali e diverse esperienze di vita, creando un puzzle che valeva più della mera somma dei singoli componenti. I loro interessi formavano una sorta di enciclopedia musicale.
Chris Squire aveva una solida cultura classica, Peter Banks e Bill Bruford erano appassionati di jazz. I loro approcci erano però diversi: Banks suonava la chitarra come un musicista rock che guardava al jazz, mentre Bruford suonava in tutto e per tutto come un jazzista. I suoi compagni gli dovevano spesso ricordare che non faceva parte di un quintetto swing. Quando tuttavia l’ascoltò suonare, Anderson capì che aveva bisogno proprio di uno come lui. Di formazione classica, Tony Kaye si convertì prima al jazz e poi al rhythm & blues, appassionandosi al suono dell’organo elettrico.

La presa di coscienza definitiva arrivò quando Banks decise che, nei limiti del possibile, non avrebbe più suonato blues. Evitare le scale e le modalità del blues gli avrebbe consentito molta più libertà. La stessa convinzione maturò più o meno in contemporanea in altri chitarristi del rock progressive britannico, come fosse una piccola comunità che tentava di ribellarsi all’egemonia culturale circostante. Divenne di fatto la prima corrente del rock libera dal blues.
L’impostazione di Banks sarebbe stata adottata ben volentieri dal chitarrista che lo sostituì dal terzo album in poi, l’ancor più eclettico Steve Howe. Gli Yes suonano il loro primo concerto il 4 agosto del ’68 e meno di un anno dopo il loro album di debutto, appunto Yes, raggiunge i negozi. È la Atlantic a distribuirlo, grazie ad un contratto rimediato dal giovane manager Roy Flynn, proprietario di un locale in cui la band si è talvolta esibita. Purtroppo le grandi sfere della Atlantic non intuiscono il potenziale della band e le forniscono un budget risicato.

Tony Kaye affitta un organo Hammond, dal suono decisamente più potente del suo Vox Continental, tuttavia nessuno sa come utilizzarlo e trasportare il suono su nastro. Elemosinano così la consulenza tecnica di Keith Emerson, che gli impartisce un corso accelerato sui trucchi dell’arnese.
Tutto ciò spiega abbastanza bene il suono costipato del disco, piuttosto inadatto agli arrangiamenti e al dinamismo delle sue strutture.
Ci sono comunque alcuni brani, che neanche una produzione difettosa può offuscare, fra i quali “Yesterday And Today”, ballata acustica con Kaye al pianoforte e Bruford al vibrafono e che la voce di Anderson eterea ed asessuata la rende modernissima e “Survival”, il primo assaggio completo dello yessound, una possente mini-suite di appena sei minuti. L’album va malissimo, ma all’epoca (con il mercato musicale in piena espansione) si concedevano agli artisti anche un paio di fiaschi consecutivi nella speranza di vederli attecchire e maturare. Per il secondo album, Time And A Word, de 1970, il budget è così più sostanzioso e la band può permettersi una piccola orchestra, nonché un tecnico del suono d’eccellenza quale Eddie Offord, giovane ma ritenuto il migliore della sezione britannica dell’Atlantic. Il produttore è Tony Colton. Sul retro della copertina Anderson compare per la prima volta come Jon, senza la “h”.

Il cambio di rotta

Banks non approvava il modo di lavorare di Colton e l’utilizzo dell’orchestra, che sostituiva parti destinate a chitarra e organo. Il clima si avvelenò fino al punto di diventare irreparabile. Prima che l’album venisse pubblicato, Banks era stato estromesso dalla band. Negli Yes è spesso accaduto che le defezioni non fossero dovute a una libera scelta, bensì all’ultimatum lanciato dal resto della band, o più semplicemente dai capisquadra Anderson e Squire. Anche Roy Flynn, colui a cui dovevano il proprio contratto discografico, ritenuto responsabile dell’insuccesso di Time And A Word, fu licenziato poco tempo dopo.

Benché afflitto da alti e bassi, l’album vanta nuovamente una manciata di brani brillanti. La title track è una splendida ballata barocca in crescendo, mentre “Astral Traveller” rappresenta un passo decisivo per il loro percorso: sia la chitarra sincopata, sia la linea del basso guardano infatti alla musica funk, che avrebbe in seguito occupato spazi importanti nei dischi degli Yes.

Chris Squire viene a sapere, poco dopo la fuoriuscita di Banks, che c’è un chitarrista disponibile. Non un chitarrista qualsiasi, ma il più chiacchierato dell’underground londinese. Il suo nome è Steve Howe, ha militato nei Tomorrow, i quali non sono però riusciti a sfondare. Dopo il loro scioglimento ha bazzicato qua e là, senza trovare fissa dimora. È quindi naturale che accetti la proposta di una band che ha già due album alle spalle. Lo stile di Howe è incredibile, nessuno ha mai suonato così prima di lui. In lui confluiscono e si fondono: Jazz, ragtime, funk, hard-rock, la ricerca della timbrica, il dosaggio dei volumi, tonalità acute e secche, l’utilizzo degli armonici, per non parlare delle musiche tradizionali, che esplora in lungo e in largo, dal flamenco al folk britannico al country, da cui mutua la passione per una tecnica come il fingerpicking e uno strumento come la steel guitar. La cosa impressionante è che raramente Howe mostra uno solo di questi elementi, riesce bensì nell’amalgamarli in un’unica pozione, variando di volta in volta le dosi.
Se discutere su quale sia stato il miglior chitarrista della storia del rock è infantile e pretestuoso, quanto a completezza stilistica non vengono davvero in mente rivali per Howe. Con un simile innesto nella formazione è tutto pronto per il grande salto, che arriva puntuale quando la band assume Brian Lane, manager giovane ma ambizioso. Lane rappresenterà la chiave del successo degli Yes, raggiungendo i vertici della Atlantic e convincendoli a finanziare e promuovere adeguatamente il nuovo album.

The Yes Album esce il 19 febbraio del ’71, tempo un mese e si ritrova al numero 4 della classifica Britannica. Poco dopo anche gli Stati Uniti si accorgono di loro, con un picco al numero 40 e un milione di copie vendute pian piano.
Oltre a essere il primo disco con Howe, è il canto del cigno di Kaye, che si alterna all’Hammond fra suoni chiesastici e distorsioni screziate di r&b. Molto abile anche al pianoforte, Kaye perderà gradualmente appeal agli occhi dei suoi compagni quando si tratterà di dover introdurre i sintetizzatori e il Mellotron nel proprio repertorio, strumenti a cui non sembrava minimamente interessato. In “Yours Is No Disgrace” lo si può udire al Moog con pregevoli risultati ma convincerlo a suonarlo fu faticoso e la prospettiva di staccarsi dall’Hammond era per lui inaccettabile.
Se lo stile di Kaye raggiunge l’agognata maturità, quello di Squire dilaga. Il bassista co-firma tutti i brani più lunghi e li domina con le sue evoluzioni, i suoi tempi dispari, le plettrate pungenti e le armonizzazioni, rese possibili da un ingegnoso accorgimento tecnico. Il suo strumento viene infatti collegato a due amplificatori. Le note basse sono inviate a quello del basso, le più alte a quello di una chitarra, evitando i problemi che fino a quel momento affliggevano il basso quando se ne distorceva il suono.
È infine l’album in cui Anderson eleva le proprie ambizioni letterarie, componendo testi in cui inizia a confrontarsi con la spiritualità e a studiare il suono delle parole, a cui darà gradualmente sempre più importanza, il testo visto quindi come uno strumento.

The Yes Album sembrò probabilmente un disco perfetto nel 1971. La sua unica pecca è quella di avere una produzione lievemente appannata rispetto alle opere che lo seguirono, in cui Eddie Offord poté godere di budget mastodontici e mettere in atto i suoi disegni più ambiziosi. La composizione, l’arrangiamento e l’esecuzione appaiono tuttavia magistrali oggi come allora.

Più o meno in concomitanza con l’uscita dell’album, gli Yes acquistano dagli Iron Butterfly un costoso sistema di amplificatori con monitor, spie e microfoni, che permette loro di sentire per la prima volta gli strumenti in maniera distinta e consente un notevole miglioramento delle performance dal vivo.
Al termine del tour, le divergenze fra Kaye e il resto della band, Howe in particolare, portano all’allontanamento del tastierista. Gli Yes stanno però diventando famosi e si rendono conto di dover trovare un sostituto nel minor tempo possibile. Anderson e Squire hanno le idee chiare: vogliono Rick Wakeman.
Wakeman ha da poco lasciato gli Strawbs, grande ma all’epoca ancora poco conosciuta formazione prog-folk, preferendo il sicuro ritorno economico dell’attività di turnista. L’intesa è immediata e, stando a quanto racconta Wakeman, il giorno stesso del loro incontro si ritrovano a suonare quello che sarebbe diventato l’inno degli Yes, “Roundabout”.

Le innovazioni non finiscono qui, la prima sono gli show di luci creati dal tour manager Michael Tait, comprendenti laser e altre trovate, spesso su indicazione di Anderson. La seconda sono le copertine di Roger Dean. Il giovane pittore e designer. La Atlantic lo suggerisce alla band, che trova interessanti le sue opere e accetta volentieri. Probabilmente senza immaginare che le visioni di Dean avrebbero penetrato la loro musica tanto a fondo da diventarne un simbionte. Generazioni di ammiratori degli Yes hanno finito con l’ambientarne mentalmente le opere nei mondi impossibili dell’artista.

Fragile esce il 26 novembre del ’71, entra al numero 7 in Gb la band non ne è troppo dispiaciuta, perché questa volta il vero obiettivo è l’altra sponda dell’Atlantico. Il trionfo viene sancito nel marzo del ’72, con un picco al numero 4 della classifica di Billboard. A oggi l’album è sopra i tre milioni di copie sul solo mercato anglofono, risultato impressionante per musica tanto tortuosa.
Il motivo che rende il suono del disco così pieno e scintillante è presto spiegato dal sibilo ascendente che lo apre, sette secondi di pianoforte mandato al contrario, per ottenere i quali Offord passa diverse ore a tagliare e aggiungere nastri. Nonostante i suoi problemi con l’alcol, Offord è l’uomo giusto al posto giusto, disposto a sessioni massacranti pur di ottenere ciò che la band richiede.

Quando l’ascoltatore rock parla di progressive, sa che la stella polare è Close To The Edge, del 1972.
Motore perfetto del rock progressive e rarissimo caso di disco senza una nota fuori posto o un istante di troppo, sparisce il confine fra equilibrio e sofisticazione, fra impeto e dolcezza, fra architettura e misticismo. Le dissonanze degli strumenti elettrici appaiono delicate e, di contro, gli arpeggi acustici si gonfiano neanche fossero sinfonie. La complessità è seconda solo alla forza comunicativa di questa musica, che senza neanche l’ombra di un brano radiofonico, nell’autunno del ’72 si porta al numero 4 in Gb e al 3 negli Usa.

La cura per il dettaglio si è fatta spossante, più volte Offord si ritrova a crollare di stanchezza sulla console. Solo per realizzare il suono di ruscelli, uccellini e campane a vento che apre l’album, fu necessario mettere a punto un nastro di dodici metri. “Oggi basterebbe premere due tasti”, farà notare molti anni dopo Wakeman al giornalista Chris Welch. A pensarci bene, è evidente che molte fra le più grandi innovazioni del rock siano nate proprio nell’atto di affrontare i limiti tecnologici del proprio tempo.
Il primo lato dell’album è occupato dal brano omonimo, di quasi diciannove minuti. L’introduzione sfocia presto in un intreccio strumentale con metrica composta e guidata da Squire, dentro e fuori irrompono le note velocissimedi Howe, che disegnano linee acute e spigolose, e Wakeman, con incomprensibili squittii ottenuti alterando in qualche modo l’organo elettrico, o almeno così si presume, visto che dal vivo quel suono non è mai stato ripetuto.
Metafora sonora della vita e dell’esistenza dal piglio filosofico orientale, che ne spiega la struttura ciclica, “Close To The Edge” è l’espressione dei disegni mentali di Anderson. Il testo affronta la morte, la felicità, la condizione umana come moltitudine di anime, offre anche spunti polemici contro le religioni organizzate. Anderson cura anche alla forma, che considera inscindibile dalla sostanza, con Squire e Howe da vita ad armonie vocali intense e raffinate, che giocano per tutto il tempo con le metriche, le tonalità e i vocaboli. L’affascinante copertina di Roger Dean è un semplice sfondo verde che si scurisce gradualmente verso l’alto fino a sfiorare il nero, senza disegni all’infuori del titolo e del logo a nuvoletta degli Yes, da lì in avanti una sorta di loro marchio ufficiale.

Nonostante il successo di Close To The Edge, Bruford con grande coraggio, li lascia per entrare nei King Crimson, scegliendo di seguire il suo istinto artistico anziché quello imprenditoriale. Se Bruford è ammirevole nella sua coerenza, meno ammirevoli sono coloro che ancora oggi indicano il suo abbandono come fine degli Yes. La band avrebbe invece prodotto dischi brillanti ancora per molto tempo.

L’improvviso cambiamento non impedisce al 1973 di diventare uno degli anni più fortunati della band. A maggio esce Yessongs, album dal vivo composto da tre vinili. A dispetto della mole e del prezzo, il disco raggiunge il numero 7 in Gb e il 12 negli Usa, dove supera senza difficoltà il milione di copie.
Arriva un nuovo batterista, Alan White, amico di Offord che aveva suonato a lungo per John Lennon e bazzicava lo studio di tanto in tanto. White si trovò a dover imparare tutte le parti nel giro di pochi giorni, poiché il tour era alle porte. Quando riuscì nell’impresa, fu chiaro che difficilmente qualcuno gli avrebbe tolto lo sgabello. Il suo stile è più muscolare rispetto a quello di Bruford, ma nonostante tutto, si rivela perfettamente abile nell’edificare i complessi pattern di cui i compagni abbisognano.
A fine anno gli Yes vincono il sondaggio di Melody Maker, e Wakeman viene premiato come miglior tastierista. Eppure i suoi rapporti con Anderson iniziano a incrinarsi e le sessioni per il nuovo album lo vedono particolarmente scontento.
Tales From Topographic Oceans esce il 14 dicembre raggiunge il primo posto della classifica britannica. Negli Usa si ferma al 6°, ma il risultato è ottimo considerata la struttura decisamente poco amichevole (doppio vinile e brani che vanno dai diciannove ai ventidue minuti).
Nonostante una positiva recensione sul Times, l’opera venne annientata dalla critica, e ancora oggi se ne leggono di ogni sorta sul suo conto, dalle accuse di eccesso e ridondanza a frasi come “il disco che per contrasto stimolò la nascita del punk”.

L’impressionante carriera dasolista ed i litigi con Anderson, spingono Wakeman a lasciare la band. Proprio pochi giorni dopo il tastierista ha un infarto, dovuto probabilmente agli eccessi di alcol e Anderson decide di mettere da parte i rancori personali chiedendogli di rientrare una volta tornato in salute. Wakeman apprezza il gesto, ma conferma la sua posizione.
Il suo apporto ha di fatto dato colore agli Yes, elevandoli dalla crudezza di Kaye (preziosa ma limitata al solo organo elettrico). Il rimpiazzo avrà un’ombra importante con cui confrontarsi.
Si pensa inizialmente a Vangelis, l’offerta viene declinata (il musicista greco ha paura di volare) e la band punta su Patrick Moraz, immigrato svizzero che ha appena registrato un album a nome Refugee in compagnia di ex-membri dei Nice, presto finito nel dimenticatoio.

Relayer esce il 28 novembre 1974, posizionandosi al numero 4 in Gb e al 5 negli Usa. Le recensioni sono più clementi rispetto a quelle del predecessore, Melody Maker e Billboard addirittura lo esaltano. Oggi come oggi, l’opinione generale è polarizzata fra una minoranza che lo stronca imputandogli gli stessi difetti di Tales e una maggioranza che invece ne riconosce l’unicità e l’urgenza espressiva, celebrandolo fra i migliori dischi dell’epopea progressiva, quale è.
La struttura della scaletta è simile a Close To The Edge, con un brano sul primo lato e due sul secondo. Il disco chiude un ciclo in cui gli Yes hanno costruito una forma di scrittura espansa, fuori dai canoni della popular music. gli Yes spostano il rock verso le filosofie orientali. Con sapienti giochi di allentamento delle maglie compositive della canzone standard una scrittura che guardi oltre il patchwork di vari temi pop.

Dopo Relayer la musica degli Yes subirà una forte normalizzazione i brani rimarranno densi di cambi e trovate, ma verranno quasi sempre inseriti in canzoni piuttosto definite e mediamente molto più brevi. Tuttavia, ciò che rende davvero unico il disco è il suo suono, impensabile con la formazione di due anni prima.
Bruford non avrebbe infatti mai immaginato di suonare la batteria con la forza che mostra White in questo disco, imbastendo cavalcate tempestose e picchiando sulle pelli con foga. E Wakeman non avrebbe mai saputo approcciarsi alle tastiere con il tocco jazz di Moraz, che è il vero punto focale dell’opera.

Il 1975 viene speso parte in concerto e parte registrando gli album solisti dei vari membri, alcuni dei quali di buon successo.
Il 19 ottobre esce “Yessongs”, film ottenuto dagli stessi concerti dell’omonimo album di tre anni prima. È un pordotto imperdibile, perché dà per la prima volta ai fan di tutto il mondo la possibilità di capire quanto grandi e spettacolari siano gli Yes dal vivo. Splendido il vestiario, fra tutine eccentriche e mantelli da corte di Camelot, la specialità di Wakeman.

Nel giugno del ’76 la band suona al Jfk Stadium di Filadelfia davanti a più di centomila persone. I guadagni di quel tour sono faraonici e tutto sembra andare per il meglio.
Quando però ci si reca in Svizzera per iniziare le prove del nuovo album, qualcosa va storto. Proprio la mano che ha reso Relayer un disco tanto singolare, si ritrova poco adatta al sound degli Yes, che hanno deciso di tornare a confrontarsi con la forma-canzone. Servirebbe qualcuno dal tocco più proporzionato, più regale… insomma servirebbe Wakeman. Moraz capisce l’antifona e saluta la band, pur mantenendo un bel ricordo del periodo passato con loro, e Wakeman rientra volentieri, sia perché apprezza la marcia indietro degli Yes verso musica più semplice, sia perché la sua carriera da solista appare in fase calante dal punto di vista commerciale. Going For The One non è però una svolta solo in termini di contenuto musicale, bensì anche a livello di rapporti personali. È infatti il primo disco prodotto dagli Yes senza aiuti esterni, anche a livello grafico ci sono cambiamenti. La copertina, lo studio Hipgnosis sostituisce Roger Dean, con un lavoro abbastanza efficace, anche se non granché adatto alla musica degli Yes.
Nell’anno della deflagrazione punk, il quintetto tocca il vertice del successo in patria, dove il disco si impone al numero 1 e sfiora il mezzo milione di copie. Negli Usa si fa bastare un comunque dignitoso numero 8.
La ballata folk “Wonderous Stories”, semplice ma incantevole, ottiene un buon successo come 45 giri. Altra ballata, ma dalle tinte più eteree, “Turn of the Century” viene concepita da White su alcune linee chitarristiche di Howe. Il batterista rinuncia al proprio strumento, preferendo puntellare con idiofoni metallici. È sicuramente la sua performance più delicata.
Poi c’è “Awaken”, sedici minuti in cui gli Yes visitano nuovamente i territori in seguito indicati come new age. Tuttavia non può paragonarsi con la ricchezza delle suite dei dischi precedenti. L’album nel complesso è comunque solido e i brani più brevi sono tutti irresistibili.

Il rapporto con il punk

Se è vero che il punk non fu una reazione al rock progressive e se pure è vero che l’ala americana del movimento non era interessata alle sorti del rock progressive, è di contro anche vero che a Londra e dintorni il movimento attecchì anche grazie alle montature di Malcolm McLaren e della stampa specializzata, che indentificò nel rock progressive il male da estirpare. Spesso a discapito degli stessi musicisti punk, che in molti casi erano cresciuti col prog e l’amavano, si pensi a Keith Levene, Maurice Deebank, entrambi fan sfegatati degli Yes. Lo stesso Johnny Rotten si sarebbe svelato di lì a breve ammiratore dei Van Der Graaf Generator, mostrando l’infondatezza di quella teoria una volta per tutte.

Sia come sia, per qualche tempo il nome degli Yes risulta poco accattivante in Gran Bretagna, e questo spiega l’improvvisa flessione nelle vendite riguardante Tormato del 1978, che non supera l’ottava posizione. Li consolerà il milione di copie venduto negli Usa, con picco al numero 10. È un disco controverso, di cui vengono solitamente lodate le canzoni e meno la produzione. I brani più aggressivi soffrono in effetti per la mancanza di profondità del suono, gli arrangiamenti sono comunque notevoli, buoni ritmi, melodie vincenti ed atmosfere più variegate che mai. Nonostante le critiche ricevute (non tutte positive), ancora oggi la band ne esegue i brani dal vivo e il pubblico li acclama, a riprova della bontà del materiale. È un disco coraggioso e costituisce un passaggio nella storia degli Yes incontrano la new wave, adottandone parte dei suoni.

Nel 1979 con un album prodotto da Roy Thomas Baker, poi cancellato per incompatibilità caratteriali, Anderson decide di mollare la band. A dargli la spinta definitiva è il successo commerciale del progetto Jon & Vangelis, che all’inizio del 1980 piazza una notevole hit con “I Hear You Now”.
Anche, Wakeman lascia a sua volta, convinto che per il gruppo non ci sia futuro. Così mutilati, gli Yes sembrano effettivamente al capolinea, quando incontrano i Buggles in uno studio di registrazione, caso vuole che siano composti proprio da un cantante e un tastierista, Trevor Horn e Geoff Downes, e che siano tecnicamente molto superiori alla media dei gruppi new wave. Hanno appena pubblicato un ottimo lavoro: The Age Of Plastic, che unisce le sonorità e la forma del nuovo pop con la raffinatezza art-rock di qualche anno prima, nonostante i più lo riducano al solo tormentone “Video Killed The Radio Star”. I due sono dei fan accaniti degli Yes, e non par loro vero di entrare a far parte della squadra, sebbene Horn avrebbe sofferto il fatto di dover rimpiazzare un’icona come Anderson.

I lavori scorrono veloci in un clima di entusiasmo, e nell’agosto del 1980 Drama è nei negozi. Le vendite tornano ai livelli passati, con un bel debutto al numero 2 in Gb. Va peggio negli Usa, numero 18 dovuto probabilmente al fatto che alla band manchi su quel mercato ormai da troppi anni un vero singolo d’impatto.
La tournée americana è comunque coronata da diversi sold out al Madison Square Garden. Il che porterebbe a domandarsi dove siano finiti quei soldi, dato che lo storico manager Brian Lane viene licenziato proprio a causa degli scarsi proventi derivati da quella serie di concerti. Magie dell’epoca d’oro del rock, quando i musicisti muovevano soldi a quintali e se li facevano scomparire sotto al naso. O semplicemente li sperperavano, a seconda di quale campana si ascolti.

L’album che venne stroncato e rivalutato in seguito, è un vero ibrido tra il progressive e la new wave, o meglio Yes-Buggles, dai suoni estremamente moderni, con una produzione superiore a quella di Tormato e una copertina, grazie al cielo, di nuovo in mano a Roger Dean. La maggior parte del pubblico sembra apprezzare il lavoro dei due nuovi membri, ma Horn rimane molto segnato da un paio di contestazioni subite durante il tour britannico, in cui alcuni facinorosi invocarono Jon Anderson. Un po’ questi eventi, un po’ il dissesto economico provocato dalle incomprensioni con Lane portarono di lì a breve allo sfaldamento della formazione.

Gli Yes cessano di esistere all’inizio del 1981, e per un paio d’anni sembra che la cosa sia definitiva. Squire e White sono tuttavia ancora in contatto. Dopo aver tentato senza successo di coinvolgere Jimmy Page e Robert Plant in un supergruppo, danno vita ad un nuovo progetto, di nome Cinema. Arruolano così un immigrato sudafricano, Trevor Rabin, che nella seconda metà dei Settanta aveva guidato i Rabbitt, band dedita a un prog-rock muscolare e invecchiato piuttosto bene. Il nuovo nucleo richiama Tony Kaye per le tastiere, il quale accetta all’istante.
Le registrazioni iniziano alla fine del 1982 i vecchi problemi ritorinano e Kaye lascia di nuovo, per lo stesso motivo che l’aveva fatto fuoriuscire una decina d’anni prima: non è a suo agio con le tastiere più moderne. Squire riesce a fargli cambiare idea dopo qualche mese, gran parte dell’album è già stata approntata e Kaye inserisce solo qualche ritocco di organo e pianoforte. Il resto delle tastiere sono suonate da Rabin e da Trevor Horn, questa volta nel ruolo di produttore esterno.
L’impegno e tanto ma l’Atlantic non è ancora del tutto convinta e i costi di produzione iniziano a lievitare. A quel punto Squire incontra Jon Anderson, gli porta un paio di demo Anderson rimane impressionato dalle canzoni e accetta di tornare, a patto che gli venga data la possibilità scrivere qualche verso e modificare alcune melodie. Il gioco vale la candela, il rientro di Anderson convince l’etichetta a sganciare più soldi e a quel punto appare evidente che la band tornerà a chiamarsi Yes.
90125 esce il 7 novembre del 1983. Il successo è enorme: tre milioni di copie negli Usa (numero 5 e un anno di permanenza in classifica), mezzo milione in Germania, 450mila in Francia, 200mila in Canada, 100mila persino in Italia, dove gli Yes non avevano mai attecchito prima, a differenza di altri giganti del prog.
Paradossalmente, farà fatica proprio in Gb, che poco gradisce i suoni ed i ritmi del rock da arena americano, mai troppo popolare da quelle parti. Anche se pian piano riuscirà a toccare le 100mila copie. A ogni modo, nel resto del mondo è festa.

Il trionfo si deve interamente a “Owner Of A Lonely Heart”, due settimane al numero 1 negli Usa come 45 giri, uno dei capolavori della musica anni Ottanta. Di semplice non c’è proprio niente: apertura di batteria campionata (probabilmente il primo della storia), parti di tastiera suonate al Synclavier, programmati al Fairlight, suoni che nessuno aveva ascoltato. La voce di Anderson raggiunge altezze imperiose è ultimo ricamo di un pezzo inattaccabile.
Almeno altre due canzoni di 90125 viaggiano a queste altezze. Una è “Changes”, elaborato rock d’atmosfera. L’altra è “Leave It”, un complesso arrangiamento, probabilmente aiutato da campionatori, un labirinto capace di far impallidire i gruppi vocali anni Sessanta.
Il primo e unico Grammy della carriera lo vincono con “Cinema”.

La parte finale della carriera degli Yes non merita particolari approfondimenti. Dopo quindici anni consecutivi di grande musica, attraverso gli stili più disparati, il capolinea creativo è inesorabile. I cambi di formazione vengono citati solo per completezza, ma plausibilmente non faranno che confondervi, sia per il continuo andirivieni dei vecchi membri, sia perché i nuovi ingressi da questo momento in poi si riveleranno del tutto superflui per la storia della band.

Nel 1987 pubblicano Big Generator (numero 17 in Gb, numero 15 negli Usa, due milioni di copie nel mondo). Molto simile al precedente, ha comunque al suo interno i singoli “Rhythm Of Love” e “Love Will Find A Way” sono ottime canzoni pop, nonché le ultime degli Yes veramente note. La scaletta offre purtroppo poco altro.

Nel 1989 Anderson mette in piedi una un nuovo progetto con vecchi membri degli Yes. Squire gli nega però l’utilizzo del marchio, e l’album esce a nome Anderson Bruford Wakeman Howe. Niente di miracoloso, prendono però le distanze dal gruppo ufficiale riproponendo un album, per quanto leggero, di rock progressivo.

Nel 1991 è il turno di Union, che cerca di portare pace fra le due versioni della band, raccogliendo tutti e otto i musicisti. Pur non contenendo materiale di rilievo, vende un milione di copie (numero 7 in Gb e 15 negli Usa). Sarà l’ultimo notevole riscontro commerciale della carriera.
Per il modesto Talk del 1994 la formazione si è nuovamente ridotta a cinque membri: è l’ultimo album per Kaye e Rabin.

Nel biennio ’96-97 escono due doppi cd Keys To Ascension 1 e 2, Le due opere contengono una parte live,composta da vecchi classici, e una parte di nuovi pezzi di buona fattura, nel loro inconfondibile stile, tanto che i fan cominciano a sperare, ma Wakeman per l’ennesima volta esce dal gruppo, che lo sostituisce con lo sconosciuto Billy Sherwood.

Nel ’97 esce così il leggero Open Your Eyes e un po’ tutti storcono la bocca. Nel ’99 è la volta di The Ladder, alle tastiere c’è Igor Khoroshev. Il disco alterna pezzi pop ad altri dai complicati equilibrismi dei vecchi tempi.

Nel 2001, il gruppo perde i due recenti acquisti per strada ed affida a un’intera orchestra il compito di sostituire le tastiere. Magnification completa così l’opera di rinascita. È un disco dove l’uso dell’orchestra è ben bilanciato, le scelte melodiche sono indovinate e complesse al punto giusto. È evidente lo sforzo di rilancio creativo con pezzi di buona sensibilità armonica, gradevoli all’ascolto, ma sempre sul filo di una tradizione di estrema articolazione e gusto esecutivo.

Il 28 giugno 2015 Chris Squire, l’unico membro presente in tutti gli album, muore di leucemia e lascia il mondo del rock in lutto. Due anni prima invece il 7 marzo 2013 moriva il chitarrista fondatore, Peter Banks.
In questo turbinio di porte girevoli, fatto di entrate uscite e ritorni, attualmente gli Yes sono: Steve Howe, Alan White, Geoff Downes, Jon Davison e Billy Sherwood, rientrato su richiesta di Squire. I primi tre sono membri storici e l’eventuale possibilità di vederli dal vivo non deve essere sottovalutata, a patto che si sia pronti a digerire una controfigura di Anderson come cantante.

The Quest (2021) è un album per nostalgici dell’epoca del progressive, alla ricerca di sonorità della tradizione del rock sinfonico anni 70, con una marcata presenza di brani acustici. Di certo è l’album più interessante di grandissima parte della discografia che partendo dal Union (1991) in poi, dove è davvero arduo trovare qualcosa di realmente rilevante.

Nonostante i continui cambi di formazione gli Yes sono riusciti a mantenere una certa organicità. Osservando la loro carriera passo dopo passo, ci si rende conto che il mutamento è stato naturale, e che non ci sono mai state rotture traumatiche all’interno del loro discorso.
È impressionante il numero di strumentisti che sono riusciti a lasciare il segno passando per gli Yes, sviluppando stili che sarebbero diventati classici e immediatamente riconoscibili. Non c’è mai stato all’interno del gruppo un vero e proprio leader, un frontman come Roger Wright per i Pink Floyd e Peter Gabriel per i Genesis, come detto in precedenza è sempre coesistito un equilibrio a volte delicato, in cui ognuno ha dato il proprio contributo rendendo il tutto unico ed inimitabile.

Gennaro De Santis.

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