Big Floyd: questo il nome d’arte con cui George Perry Floyd, l’afroamericano ucciso barbaramente dalla polizia di Minneapolis, amava farsi chiamare quando vestiva i panni di rapper. Tanto – giustamente – si è detto sul suo assassinio, su quegli strazianti e insostenibili nove minuti trascorsi faccia all’asfalto con il ginocchio di Derek Chauvin piantato sul collo e sulle proteste senza precedenti che tale vigliaccata, ripresa dai telefoni di alcuni passanti, ha generato in tutto il mondo. Molto meno, finora, si è detto invece del passato di George Floyd e della sua storia di uomo, decisamente oscurata dal carico di simbolismo storico-politico che la sua uccisione richiama e accende.
I dati che riguardano il razzismo in America sono spaventosi e indegni, e dandogli un’occhiata è oggettivamente impossibile non provare rabbia.
Tuttavia, per non rischiare di inciampare nella solita visione “tifosistica” della realtà, che è il vero male del nostro tempo e che riesce a generare divisioni anche su quelle questioni dove sembrerebbe naturale e scontato essere tutti uniti, occorre più che mai, per sentire la vicenda, approfondire la storia di George Floyd strettamente connessa alla cultura hip hop, che fin dalla fine degli anni ’70 veicola con forza unica le proteste, le voci e le realtà della comunità afroamericana.
George non è solo un altro nero ucciso dalla polizia. George era un uomo. Un uomo cresciuto dalla sola madre insieme a sei fratelli in uno dei quartieri più poveri e difficili di Houston, Bricks: uno di quei ghetti dimenticati ai margini delle città, dove se nasci nero la prima cosa che ti insegnano, come racconta Ta-Nehisi Coates in quel capolavoro di libro che è Tra me e il mondo, è difendere il tuo corpo dalle minacce esterne e, se hai un talento che può permetterti di uscirne pulito, ti conviene cavalcarlo forte. George, con il basket, ci ha sempre provato. Vista la stazza (a 17 anni era alto 193 cm) per gli amici era già “Big Floyd” ancor prima di conquistarsi le borse di studio che gli hanno permesso di studiare e giocare a basket al college di Kingsville, Texas, e di tornare nella sua Houston nel 1995 da giovane laureato.
Se a proteggere il tuo corpo nero e a coltivare il talento c’è qualcuno che te lo insegna, una cosa che invece non devono insegnarti in quei posti è il richiamo verso la cultura hip hop e il rap, che imparano da soli a scorrerti nelle vene come fa il sangue carico di ossigeno. Hip hop vuol dire aggregazione, comunità, lotta per avere un posto nel mondo dei grandi. È per questo che nel 1994, quando George incontra dj Screw, uno dei maggiori pionieri della Southern hip hop, entra a far parte, col vecchio soprannome di “Big Floyd“, del suo collettivo, lo Screwed Up Click, formato dai rapper più bravi di Houston.
Non sono molte le canzoni di George reperibili online, ma qualcosa si riesce a trovare. In questi giorni sta facendo il giro del mondo una vecchia traccia intitolata Sittin’ on top of the world, in cui George fa rap per due minuti con la sua voce grave, quasi spettrale, ormai purtroppo resa nota a tutto il mondo per quegli “I can’t breathe” con cui ha implorato invano l’agente di Minneapolis di staccargli il ginocchio dal collo. Nella traccia si parla di droga, voglia di arrivare in cima, arricchirsi. Non contenuti esemplari, ma di certo autentici e molto credibili considerato il contesto in cui si generano. All’hip hop, soprattutto quella che nasce per strada, non si chiede correttezza, bensì verità, schiettezza, atmosfere. E qui c’è tutto questo.
In un’altra traccia, diffusa online in questi giorni da fan e attivisti, George, insieme al rapper Daryl, reinterpreta Sugar Hill di Az. In quegli anni le frequentazioni di Big Floyd non devono essere state le più raccomandabili, almeno a giudicare dai suoi testi, ma almeno riuscì a garantirsi il rispetto di gran parte della scena musicale di Houston. George in quel periodo ha commesso errori, anche gravi. È finito più volte in prigione per spaccio e rapine, ha visto morire prima dei trent’anni molti dei suoi amici, fra i quali DJ Screw, per overdose o regolamenti di conti, e non ha saputo realizzare i suoi sogni sportivi. Il rap fu uno dei pochi appigli su cui potè far conto. Eppure, attraverso le amicizie costruite in quegli anni distruttivi, negli ultimi anni George, uscito di prigione, stava provando a rialzarsi. Dal 2013 era impegnato in vari servizi di beneficenza, aiutava la madre colpita da un ictus e aveva abbracciato a pieno i valori della religione cristiana. Consegnava pasti ai più poveri per la fondazione Angel By Nature, fondata dal rapper Trae tha Truth e nel 2017 ha registrato un video contro la violenza causata dalle troppe armi in circolazione in America.
L’hip hop non dimentica mai chi ha spinto e diffuso i suoi valori, e anche in questo caso la voce dei suoi artisti sta onorando un vecchio alfiere come Big Floyd: il primo giugno è uscita PIG FEET, una potente traccia di Terrace Martin e Denzel Curry, due artisti da sempre impegnati nella lotta contro gli abusi della polizia sulla comunità afroamericana. Fin dal titolo (“piedi di maiale”) è possibile immaginare la rabbia di cui è intriso il testo, accompagnato da un video-documentario delle proteste di questi giorni. Terrace Martin ha presentato il brano spiegando che esso nasce dalla necessità di cambiare le cose e da un’esigenza di protezione che chi nasce nero, come si diceva prima, non è mai riuscito a soddisfare. Migliaia di artisti stanno facendo sentire le loro voci in questo senso, facendo senz’altro molto più rumore di vetrine spaccate e auto rovesciate, che difficilmente aiuteranno a risolvere il problema.
L’arte, ancora prima di cambiare il mondo, cambia sé stessi e questa potrebbe essere l’unica vera chiave per aprire la porta della convivenza pacifica. È necessario, ora come mai, ricordare l’efficacia del messaggio di non-violenza di pilastri della comunità nera come Martin Luther King, raccontato nel 2011 in Selma-La strada per la libertà, film magistrale. Anche qui l’hip hop fu protagonista: la colonna sonora Glory di John Legend e Common vinse persino un Oscar, a dimostrazione che il rap, quando sfrutta le sue infinite risorse, sa essere un ottimo veicolo per provare a cambiare le cose.
“Darkness cannot drive out darkness; only light can do that. Hate cannot drive out hate; only love can do that”
Daniele Benussi