C’era una volta la terza pagina, un fenomeno giornalistico attribuibile al solo contesto italiano. Il Dizionario enciclopedico italiano (1956) definisce l’inserto culturale per eccellenza come quella pagina «di varietà letteraria, che, giovandosi della collaborazione di scrittori anche illustri, si è fatta mediatrice fra il mondo della cultura e il gran pubblico». La terza pagina persistette per tutto il Novecento e nacque da un fortuito tentativo, rimasto celebre nella storia del giornalismo italiano, proposto da Alberto Bergamini, direttore del Giornale d’Italia. L’11 dicembre 1901 veniva pubblicata una pagina interamente dedicata alla recensione teatrale dello spettacolo Francesca da Rimini di d’Annunzio: Diego Angeli per le scene, Nicola d’Atri per le musiche, Domenico Oliva per la critica, Eugenio Checchi per la cronaca. Era nata l’idea di terza pagina ma è al direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, che si deve la sua consacrazione a fama nazionale. Colonna portante della terza pagina resta l’elzeviro. Originariamente un carattere tipografico, l’elzeviro deve il suo nome agli Elzevier, una nota famiglia olandese di tipografi del XVII secolo alla ricerca di un nuovo segno grafico che rallentasse la decadenza dei caratteri romani. L’elzeviro fu ideato e messo a punto dall’incisore Cristoforo da Van Dick: propose meno contrasto tra spazi vuoti e pieni, le grazie solo accennate e leggermente arrotondante e una minore incrinatura dell’asse dei rotondi. Il carattere, di fatto più piccolo, risultava facilmente leggibile ed elegante. In poco tempo, divenne simbolo di una prosa letteraria alta: nel giugno 1877 la casa editrice Zanichelli scelse il carattere elzeviro per la pubblicazione della raccolta Postuma e, un mese più tardi, per le Odi barbare di Giosuè Carducci. Dunque, l’elzeviro era stato promosso a carattere d’alta prosa. A inizi del Novecento, proprio Luigi Albertini (direttore del Corriere dal 1900 al 1921) lo propose per l’articolo culturale di apertura della terza pagina, inaugurando così un nuovo genere letterario.
Difficile trovare una definizione di elzeviro che incontri un consenso unanime, sicuramente quella che lo avvicina al concetto di saggio è la più condivisa. Secondo la tripartizione di saggio stilata da Praz, si ha in primis la differenza tra uno studio, un bozzetto e il saggio vero e proprio, a sua volta scomponibile in: resoconto di un’esperienza o intervento d’autore riguardo a un determinato fatto; libero giudizio intorno ad un’usanza o tratto tipico della società; trattazione scomoda e irridente rispetto alla norma, categorizzabile in base al tono, familiare e spontaneo o erudito e piacevole. Ed è qui che l’elzeviro si incontra con il concetto di saggio: nell’espressione di un personale parere, che sia un resoconto di un’esperienza diretta o un commento d’attualità e critica letteraria, tenendo alta la propria natura sarcastica e pungente.
Dunque la terza pagina fungeva da incontro tra il giornalismo più schietto e il pensiero letterario; era, come ricorda Emilio Cecchi, una finestra di visibilità per lo scrittore in tempi bui, quali quella della censura e delle condizioni limitative imposte alla stampa durante le guerre. Cavalcò i tempi del boom economico per poi cominciare la sua discesa negli ultimi decenni del novecento, negli anni di piombo, quando l’informazione verteva sull’attualità e l’attenzione mediatica si andava politicizzando.
La terza pagina è stata culla di grandi autori e l’elzeviro un caro antenato di opere riprese e riadattate, poi, a nuova forma.
All’interno dell’archivio storico del Corriere della Sera, il giornale italiano che meglio seppe sfruttare questa parentesi letteraria, diversi sono i casi di riscontro che vedono elzeviri rinascere come testi più articolati o racconti. Tra i grandi nomi che ne forniscono un esempio spiccano Alberto Moravia e i “Racconti romani” (1954), Tommaso Landolfi, Goffredo Parise con il suo “Sillabario” e, inevitabilmente, Dino Buzzati.
Nel caso di Dino Buzzati, l’attività giornalistica fungeva consapevolmente da laboratorio linguistico: un vero e proprio gymnasium dove sperimentare nuove tecniche e alternative soluzioni sintattiche da riutilizzare, poi, nelle opere letterarie. Ben due capitoli del suo romanzo “Un amore”(1963) nascono come elzeviri, pubblicati sul Corriere tra il 1960 e il 1962. E numerosi sono le corrispondenze tra i suoi interventi in terza pagina e i testi pubblicati nella raccolta “Sessanta Racconti” (1958).
Dino Buzzati inizia la sua carriera come reporter, esordendo con articoli di cronaca e occupandosi anche di attualità estera (sarà inviato speciale in Etiopia tra il 1939 e il 1940). Resta, probabilmente, l’autore che meglio di altri ha saputo fondere i due ruoli, di scrittore e giornalista, facendo l’uno un arricchimento dell’altro, senza mai dimenticare il proprio stilema né il formato a cui adeguarsi. Divertito dall’espressività gioviale della lingua, sperimentò nuove strutture come lo stile nominale nella sintassi; si distinse nell’uso del cosiddetto linguaggio differenziato (connotato da una ricca aggettivazione) e della descrizione non priva di elencazione. Per amor del ritmo e armonia, riabilitò il tricolon (sequenza di tre membri in una frase, legati per asindeto, parallelismi o ripetizioni, senza consueto ausilio di congiunzioni).
«Quindi nel palazzo addormentato ci fu un risveglio misterioso di vita, come se centinaia di persone fossero rimaste nascoste negli armadi o dietro i tendaggi polverosi aspettando il segnale, un furtivo strisciar di passi, un diffuso brusio che si propagava intorno. Poi voci distinte, richiami, ordini secchi, sbattere di porte, risucchi, passi in corsa precipitosa, tonfi lontani. Montichiari, aperta la vetrata, si affacciò sulla terrazza. Nel giardino che circondava il Ministero le lampade elettriche, chissà come, erano spente. Tanto più fissa e conturbante risultava perciò la luce della luna. Sui viali bianchi due tre uomini passarono di corsa tenendo in mano torce accese. Poi un giovane a cavallo con un gran mantello rosso. Ora sul balcone centrale del palazzo due militari in alta uniforme si disponevano uno per parte, impugnando delle lucenti spade. Alzarono le spade al cielo. Non erano spade, erano trombe. Ne uscì un lungo squillo d’argento, meraviglioso, che disegnò un arco altissimo sopra le masse umane. Montichiari non ebbe bisogno che gli comunicassero esplicitamente la notizia, per capire: la rivoluzione, era caduto il ministero.»
Da Era Proibito di Dino Buzzati, pubblicato sul Corriere della Sera come elzeviro l’1 dicembre 1955 e 48° dei “Sessanta racconti”.
Tutta la maestria conquistata dalle sperimentazioni giornalistiche convergeva nei racconti di Buzzati, così come i vezzi della penna di scrittore ricercato erano immancabili tra le righe di un articolo. Perché la terza pagina era quel posto in cui l’autore era prima di tutto se stesso, la letteratura aveva dignità e vita, la critica importanza e gli elzeviri che preludevano ai racconti sapevano di possibile realtà. Non era finzione, era arte e talento.
«Ma è il giornalismo a gestire il giornale: così deve essere. Sta alla letteratura, al suo spirito sempre vivo, e allo spirito della vecchia terza pagina, ricomparire quando ve ne sia la spinta adeguata. Una riflessione di Magris, di Pontiggia o di Maldini tra letteratura, politica e costume vale in quanto notizia e scrittura, giornalismo e letteratura. Il crinale, il punto di congiunzione non muta; e lì il cuore della terza pagina dei nostri anni lontani batte ancora.» (Claudio Marabini, La Terza pagina oggi)
Pamela Valerio