Più che un “ritorno alle origini”, La Dea Fortuna è un racconto intimo e vero. Un regalo che Ferzan Ӧzpetek fa al suo pubblico: una storia che si smarca da ogni sovrastruttura –politica e/o sociale – per lasciare campo libero all’architettura emozionale costruita dai personaggi.
Arturo ed Alessandro sono una coppia in crisi, che si trascina stancamente in una quotidianità asfissiante. Entrambi infelici, lasciano immutato lo status quo della loro relazione, in attesa, forse, di una fine spontanea. È l’arrivo di Annamaria, con i suoi due bambini, a determinare uno sconvolgimento delle loro vite.
L’elemento dirompente che caratterizza questo film dagli altri ӧzpetekiani è che tale tsunami emotivo non si trasforma automaticamente in un riassestamento delle esistenze dei protagonisti: la lente, l’occhio dello spettatore non arriva fino a quel momento. Ciò che rimane, e che caratterizza i 189 minuti di proiezione, è la costante sensazione di squilibrio e mutamento.
La Dea Fortuna tra archetipi e immagini consolatorie
Per quanti conoscono Ӧzpetek dai suoi primi film, il confronto con “Le fate ignoranti” – potenziale primo capitolo de “La Dea Fortuna” – è istantaneo e, per certi versi, involontario. Complice la presenza di uno Stefano Accorsi più maturo e il riproporsi di alcuni elementi comuni ai due film, la prima impressione è che il regista turco, dopo il più esoterico “Napoli Velata”, abbia preferito tornare sui suoi passi, riproponendo uno schema e dei contenuti già noti.
In realtà, sarebbe un grave errore derubricare La Dea Fortuna quale prosecuzione narrativa di pellicole precedentemente girate: come più volte affermato dallo stesso Ӧzpetek, infatti, l’idea alla base del film si sarebbe sviluppata a partire da una conversazione realmente avvenuta tra lui e la moglie di Asif, fratello del regista recentemente scomparso. Arturo, Alessandro, Annamaria e i due bambini, dunque, avrebbero iniziato ad agitarsi nell’immaginario del regista in quel momento, alla ricerca di una cornice cinematografica nella quale abitare.
Ed è forse proprio questa “veridicità nell’ispirazione” a determinare la cifra stilistica de “La Dea Fortuna”, dove tutto è a misura di spettatore: il dramma coniugale, la malattia, l’incertezza, diventano esperienze universali, porzioni di vite molto più vicine al pubblico di quanto si pensi. Scompare il divisorio tra le emozioni del singolo e degli attori in scena ma anzi, tutto è filtrato dall’esperienza personale dello spettatore che ritrova sé stesso, o parte di sé, nelle dinamiche di Arturo, Alessandro e Annamaria.
Persino le caratteristiche essenziali che facevano da padrone nei precedenti film ӧzpetekiani, qui perdono la loro forza, divenendo maggiormente sfuocate: la panacea rappresentata dal gruppo, ad esempio, dalla famiglia allargata, dove differenze etniche e sessuali si annullano, diventa un elemento di sfondo, non più centrale alla scena. Permane la condivisione delle esperienze, ma ciascuno si fa carico della sua vita e dei suoi demoni. Il gruppo coeso de “Le Fate Ignoranti” o di “Saturno Contro” quindi permane – con una somiglianza davvero al limite, anche qui – ma dal centro nevralgico si sviluppano altre strade che non verranno battute dal regista.
Ne “Le fate ignoranti” o “Saturno Contro”, ancora, il protagonista trae il suo senso riflettendosi nel gruppo, nella moltitudine, quasi che non esista dramma prettamente personale o che non sia possibile elaborare il dolore se non rapportandolo a quello altrui. Ne “La Dea Fortuna”, invece, ciascuna famiglia è depositaria di drammi personali, nonostante il tutto continui ad alleggerirsi nella dimensione comunitaria.
Forse è questa la differenza sostanziale de “La Dea Fortuna” con tutti gli altri film, ed è proprio questo l’elemento di maturità (o di maggiore realismo) dell’esperienza cinematografica ӧzpetekiana: il campo di indagine si restringe, non si sa molto dei personaggi che orbitano intorno ai tre protagonisti. Non si sa, ad esempio, quale sia la vicenda di Mina o della madre, né tantomeno della coppia in cui lui è malato di Alzhaimer (non si sa neanche se si tratti di Alzhaimer o di qualsiasi altra malattia). Ciò che lo spettatore sa è solo ciò che Edoardo, Stefano e Jasmine decidono di fargli sapere.
Più che un compendio autocelebrativo, dunque, sembra che Ӧzpetek abbia voluto, con “La Dea Fortuna”, raccontare sé stesso attraverso un doppio binario, oscillando tra biografia e finzione: e così, la scomparsa di una persona cara e la crisi coniugale vengono inserite in un contesto dove ogni scelta e ogni ambientazione è una personalissima firma cinematografica.
L’umanità al centro del film di Ozpetek
Nessun film di Ӧzpetek ha mai avuto la pretesa di assurgere ad essere un manifesto politico, eppure, non di rado, le storie raccontate dal regista turco si sono legate a quei temi di attualità troppo spesso esclusi dall’agenda politica.
Che sia una scelta volontaria o meno, anche “La Dea Fortuna” si inserisce in questo filone.
Mentre il focus sulla sessualità dei protagonisti – fonte di frizioni plateali o discussioni sopite tra i personaggi in molti suoi precedenti film – assume contorni più sfumati, è il tema della genitorialità a tenere banco e a divenire centro di interesse. Il film, infatti, suggerisce di interrogarsi sull’effettiva bontà del paradigma legislativo che assegna la titolarità di tale diritto in base ai soli legami parentali o biologici, e non prende in considerazione la dimensione affettiva.
Un tema complesso – ancor di più se si parla di omogenitorialità-, che però il regista turco riesce, come di consueto, ad affrontare con l’opportuna delicatezza, restituendo agli spettatori un film elegante e, per certi versi, poetico. Certo, gli appassionati di quei film dal ritmo più lento, maggiormente introspettivi o votati all’estatica contemplazione, potrebbero rimaner delusi dalla quotidianità dirompente o dal vociare affollato de “La Dea Fortuna”.
Grande merito, comunque, va riconosciuto anche agli attori, convincenti e incredibilmente affiatati: da Jasmine Trinca, professionista capace e attenta, ad un Edoardo Leo che finalmente smette i panni dell’attore da commedia per sperimentare qualcosa di nuovo. Una menzione particolare va alla piccola Sara Ciocca: splendente, fermamente consapevole negli sguardi, nei movimenti e nelle parole. Straordinariamente brava. Per i detrattori di Ӧzpetek, o per chi non si è mai fatto sedurre dal suo stie, il consiglio è di recuperare questo film anche solo per lei.
Edda Guerra