La Repubblica Democratica del Congo (che come vedremo di democratico ha ben poco) è stata e tuttora è teatro di una delle guerre più sanguinose e cruente che il mondo abbia conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. Secondo una stima del 2008 dell’International Rescue Committie, ONG americana, dal 1998 ad oggi sarebbero morte in Congo più di cinque milioni di persone per cause dirette e indirette del conflitto. Non si tratta di uno scontro etnico, né tantomeno neobarbarico. Quello della Repubblica Democratica del Congo è un conflitto stratificato e multidimensionale, le cui radici sono rintracciabili nel passato coloniale, nel regime post-coloniale e nel genocidio in Ruanda. Il filo rosso della violenza che contraddistingue e unisce il passato turbolento del Congo con i giorni nostri è dato innanzitutto dalla presenza sul territorio di ingenti quantità di risorse minerarie, tanto che dalle sue miniere dipende gran parte della tecnologia mondiale. Oro, diamanti, coltan, cobalto e altri minerali sono al centro di un traffico lucroso a beneficio di capi militari, politici e di numerose multinazionali minerarie.
Non è una novità che l’Africa, soprattutto la parte centrale del continente, contribuisca in modo sostanziale al fabbisogno mondiale di materie prime. E probabilmente non esiste al mondo un paese che possa esemplificare in maniera così eloquente la contraddizione tra ricchezza di risorse naturali e povertà della popolazione come la Repubblica Democratica del Congo (da non confondere con la Repubblica del Congo, ex colonia francese). Nello specifico, circa il 50-70% del cobalto mondiale viene estratto in Congo ed esportato per la realizzazione di batterie per cellulari, PC, tablet, auto e tantissimi altri dispositivi ormai di uso comune. A partire degli anni Novanta, infatti, il prezzo di questa lega sul mercato internazionale è salito alle stelle con il boom della e-economy, quando cellulari, playstation e altri apparecchi elettronici sono diventati beni di consumo di massa.
L’estrazione del cobalto avviene principalmente nella regione del Katanga, nel sud del paese: qui la maggior parte dei minerali si trova in superficie, dunque l’estrazione non richiede grandi investimenti in tecnologia. Tutto ciò si rivela più che funzionale a un’economia di guerra poiché è sufficiente controllare militarmente un territorio per poter beneficiare della rendita dell’estrazione mineraria. A causa della dilagante povertà e della disoccupazione l’operazione estrattiva è portata avanti perlopiù da donne e bambini (secondo i dati Unicef del 2014 sono circa 40.000 i bambini impiegati per la manodopera estrattiva) che per circa un dollaro al giorno rischiano la vita in tunnel costruiti alla meglio, dove infortuni, malattie, sottosviluppo fisico e violenza sono all’ordine del giorno: tutto ciò per permetterci l’acquisto di un cellulare a qualche centinaio di euro, diversamente dalle migliaia che avremmo dovuto spendere se il settore hi-tech garantisse sicurezza e paghe congrue ai suoi dipendenti a partire dai primi anelli della catena dei processi produttivi. Infatti, a dispetto dei potenziali vantaggi che tale produzione mineraria potrebbe portare al paese, il Congo trae un beneficio molto esiguo da questo traffico internazionale, per cui la situazione del paese al momento risulta estremamente compromessa.
Ma il mercato dell’orrore del cobalto non si ferma alla violenza e allo sfruttamento. Bisogna considerare anche il grande impatto ambientale che questo materiale produce, non solo attraverso l’industria tecnologica, dall’uso che se ne fa nelle batterie e nei macchinari per produrre energia pulita, ma anche l’effettivo impatto delle miniere da cui viene estratto. L’ambita svolta green produce spesso dei costi altissimi ma invisibili (per la costruzione di reti ferroviarie elettrificate, batterie per auto elettriche e bici, ecc.). In virtù della transizione energetica, l’Europa considera il cobalto come “materia prima critica”, ossia come risorsa essenziale per l’industria e affetta da rischi nella stabilità dell’offerta. Il processo di estrazione del cobalto comporta l’utilizzo di un gran quantitativo di energia in quanto richiede esplosioni continue che rilasciano nell’atmosfera polveri e particolati, che sono alla base di malattie cardiovascolari, malattie respiratorie e malformazioni.
Il comunicato dell’agenzia DIRE chiarisce lo stato di emergenza del Congo riportando il comunicato di Giulia Cicoli, direttrice Advocacy di Still I Rise, ONG già attiva nella regione congolese: “Kolwezi, il capoluogo della provincia dove si concentrano le miniere, è veramente la capitale mondiale del cobalto: basta osservare gli abitanti, la maggior parte dei quali scava tutto il giorno sia nelle miniere ufficiali che in quelle ‘artigianali’, persino sotto il pavimento di casa”.
Come si evince dal comunicato dell’Agenzia DIRE, Still I Rise, attraverso il progetto “Basta bambini minatori”, ha organizzato una raccolta firme su Change.org con un appello diretto al ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, e al ministro dell’Ambiente e sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin. L’obiettivo è dunque far sì che l’Unione Europea renda obbligatori i controlli sulla catena di estrazione di cobalto, avvalendosi di un’entità terza, esterna e indipendente che verifichi le effettive condizioni dei lavoratori in ogni fase del processo produttivo, così che si possa avere una transizione ecologica che si prenda cura di tutti i soggetti coinvolti.
Le regioni del sud e quelle orientali del Congo (ex-Zaire) sono in effetti da sempre sotto i riflettori di enti esteri e locali per ragioni economiche. La presenza sul territorio di minerali come il cobalto ha infatti determinato l’entrata in scena di numerosi attori politici in questo territorio. È necessario allora considerare, per quanto possibile, questioni cruciali come la competizione per la terra sorta nel contesto coloniale belga, all’interno del quale venne favorita l’emigrazione dal Ruanda verso le regioni orientali del Congo, precisamente nelle zone del Sud Kivu e del Nord Kivu, all’epoca scarsamente abitate: il regime coloniale aveva infatti bisogno di manodopera da impiegare nelle miniere e nelle piantagioni.
Tra il 1877 al 1908 il Congo diventò a tutti gli effetti una colonia personale di Leopoldo II, sovrano belga. Il business della gomma (con la nascita dell’industria dei pneumatici) e dell’avorio, prima ancora del cobalto, fomentarono la ferocia del progetto coloniale, al punto che in questo periodo si verificò un declino demografico con la morte di circa dieci milioni di persone. A queste atrocità l’opinione pubblica europea e nordamericana rispose indignata: finalmente il caso congolese portò alla luce il reale scopo della colonizzazione, associato ora all’avidità e all’egocentrismo dell’uomo bianco. Nel 1908 il Congo passò sotto il controllo del parlamento belga, per cui il regime si fece meno stringente. Ma fu negli anni Cinquanta che il paese conobbe i primi movimenti di liberazione dal colonialismo, fino ad arrivare all’indipendenza nel 1960. Dopo essersi liberato di una piaga tanto dolorosa quanto dura da estinguere come la colonizzazione (che ha portato a un genocidio 11 milioni di congolesi), violenze e distruzione perdurarono fino al regime di Mobutu, con cui si è avuta la più longeva e repressiva cleptocrazia che l’Africa abbia mai vissuto.
La situazione in Congo peggiorò con il genocidio in Ruanda del 1994, che comportò la migrazione della minoranza hutu verso la zona est del Congo in seguito agli scontri con il popolo tutsi: per dividere la popolazione ruandese, allo scopo di creare un’élite tutsi che costituisse l’elemento portante del potere coloniale, i belgi fecero ricorso a teorie razziste pseudo-scientifiche e a discorsi religiosi fondati sulla Bibbia e avallati dalla chiesa cattolica che fomentavano la divisione di classe tra i due gruppi etnici. Le tragiche conseguenze di questo avvenimento storico si sono riversate sul vicino Congo, precisamente nelle zone del Kivu, con l’inizio di una vera e propria guerra iniziata nel 1996 che tutt’ora perdura nella parte orientale e nordorientale del paese.
Le relazioni tra Congo e Ruanda sembrano deteriorarsi particolarmente in questo periodo, soprattutto in seguito all’espulsione dell’ambasciatore ruandese dal territorio congolese avvenuta lo scorso 30 ottobre. In questa situazione di forte instabilità, a preoccuparsi particolarmente è il Ruanda, accusato dagli Stati esteri di essere responsabile dell’attivazione in Congo dell’M23, una forza ribelle congolese da tempo dormiente. D’altro canto, anche il governo di Kigali accusò in passato il Congo di collaborare con le Forces démocratiques puor la libération du Rwanda (FDLR), un movimento ribelle ruandese attivo nella zona orientale della Repubblica Democratica del Congo a partire dal 2000. In questo contesto, non sono rare situazioni di ostilità contro le popolazioni ruandofone nell’est del Congo.
Come se non bastasse, anche grandi potenze estere come Stati Uniti, Cina ed Europa contribuiscono a rendere il clima estremamente teso. Gli USA agiscono militarmente nella zona dei Grandi Laghi, attraverso processi di interazione e negoziato tra soggetti diversi all’interno della sua legislazione. Negli ultimi anni l’interesse degli Stati Uniti nei confronti delle miniere sul territorio congolese si traduce in una spudorata offensiva verso le iniziative economiche cinesi, che già da tempo mettono sotto scacco il territorio.
Il rapporto The Backchannel – State Capture and Bribery in Congo’s Deal of the Century (nato dalla collaborazione tra Plateforme de Protection des Lanceurs d’Alerte en Afrique (Pplaaf), Mediapart, l’Ong anticorruzione con sede a Washington The Sentry) denuncia il versamento di 55 milioni di dollari di tangenti di provenienza cinese fra il 2013 e il 2018 all’entourage dell’allora presidente Joseph Kabila, come compenso occulto per la firma di un megacontratto da 6,2 miliardi di dollari per lo sfruttamento del rame e del cobalto congolesi concesso ad aziende cinesi. I dissapori tra comunità locali e aziende cinesi, colpevoli di non rispettare le normative ambientali attraverso l’inquinamento dei fiumi locali e lo sfruttamento di manodopera locale, rendono la diaspora cinese in Congo sempre più isolata, esposta a rapimenti a scopo estorsivo e rapine a mano armata. Ciò ha comportato l’evacuazione delle imprese nel mercato dei minerali dal Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri dopo il recentissimo annuncio dell’ambasciata cinese a Kinshasa.
La Cina è finora la prima acquirente al mondo di cobalto estratto in territorio congolese: queste miniere sono infatti quasi tutte nelle mani della Congo DongFang International Mining, controllata dalla Huayou Cobalt, una società di Shanghai che peraltro annovera tra i suoi clienti l’americana Apple Inc, che qualche anno fa ammise di non essere totalmente a conoscenza della catena di approvvigionamento del cobalto in Congo. Ma non si tratta certamente di una questione cinese: ciò che mette in ginocchio il Congo è un istinto predatorio globalmente declinato e nutrito dalle logiche di profitto, da multinazionali e grandi vertici che chiudono gli occhi davanti a uno sterminio di massa brutale che si ha il coraggio di non riconoscere come tale in quanto economicamente conveniente. I numerosi conflitti dai risvolti stratificati, lo sfruttamento e la morte nelle miniere di cobalto sono fenomeni destinati a implementarsi sempre più a causa della povertà endemica.
In altre parole, la storia si ripete. Oggi come in passato, il Congo si trova al centro di violenti conflitti dalle letture complesse che hanno come posta in gioco le sue ricchezze. I settori di punta della globalizzazione come la telefonia, la robotica, l’informatica (che nei prossimi anni sono destinati a crescere) rendono il Congo una terra estremamente appetibile per la presenza in grandi quantità di cobalto.
Per quanto l’opinione pubblica occidentale non sembri particolarmente esposta agli avvenimenti che animano il sud dell’equatore, la guerra in Congo tocca tutti. Ci riguarda perché è la più palese esemplificazione delle logiche capitalistiche di iperproduzione che sviscera i luoghi, cioè quegli spazi materiali e simbolici in cui viene determinato il possibile, in cui viene disvelata la capacità di un popolo di riappropriarsi del proprio destino storico, economico e politico. È dunque necessaria una legislazione adeguata che renda obbligatori i controlli sulla filiera del cobalto in Europa e in tutto il mondo, affinché venga evitata qualsiasi forma di violenza e sfruttamento.
Mena Trotta