Incontri al confine, Valentina Tamborra
"Incontri al confine", Kenya. Credits: https://www.valentinatamborra.com/

Ci sono storie che meritano di essere ascoltate, vite ai margini, realtà piccole e dimenticate sulle quali vale la pena mettere a fuoco per rivelarne la grandezza. Storie di persone che vivono dove giocare è una questione di vita o di morte, in cui un avanzo di cibo è un piatto prelibato, in cui la ricchezza sta nel pescare, in un lecca-lecca, in un sorriso di un bambino tra le macerie. Nella sua ultima uscita “Incontri al confine” la fotografa e giornalista Valentina Tamborra restituisce al lettore quelle fotografie mai scattate delle vite al confine, storie di guerra, di povertà, di pace, di amore, storie dinanzi alle quali proviamo imbarazzo, perché troppo spesso non ci rendiamo conto di quanto siamo ricchi se possiamo camminare senza doverci guardare le spalle e tornare ogni giorno a casa.

Il libro inaugura la collana di reportage narrativi „Sabbia“ di Mar dei Sargassi Edizioni e ne incarna a pieno l’animo: lasciare un segno lì dove basta poco a spazzare via tutto. Gli scatti dell’autrice sono stati raccolti tra il 2016 e il 2023 in alcuni dei posti più dimenticati del mondo, luoghi spesso lontani e diversi, eppure così vicini, legati da un filo rosso che si assottiglia sempre più. Stavolta Valentina ha scelto di farci guardare i suoi scatti attraverso le parole, scegliendo una scrittura per frammenti che ben evoca lo sfogliare di un album fotografico.

Come ci suggerisce il titolo, in questo album Valentina cerca l’incontro con l’Altro attraverso uno sguardo sulla realtà empaticamente vicino, senza tuttavia violare i confini del singolo. Le testimonianze che l’autrice ha scelto di raccontare non possono e non devono lasciarci indifferenti. Ogni storia, ogni protagonista, ogni oggetto ci fa riflettere su ciò che stato, ciò che è e ciò che sarà, dimostrandoci che la speranza è davvero l’ultima a morire. Paradossalmente guardare il futuro dalla nostra posizione di “privilegiati” ci induce a vedere tutto nero, come se non ci fosse nessuna luce in fondo al tunnel, come se quello che sta accadendo fuori dalla finestra fosse tutto ormai già irrecuperabile, e quindi chiudiamo la finestra e ci abbandoniamo nella comoda indifferenza delle nostre poltrone. Crediamo di avere tutto e di conoscere tutto, eppure abbiamo ancora così tanto da imparare proprio da chi non ha niente, se non una forte fede nell’umanità.

Copertina “Incontri al confine”. Credits: Mar dei Sargassi Edizioni

Incontro con l’autrice

Ha girato tanti mondi, ha conosciuto tante persone, ha fotografato tanti paesaggi, tutti molto diversi eppure così simili tra loro. Mi chiedevo quindi se fosse stato difficile per Lei scegliere quali storie riportare nero su bianco tra un così vasto repertorio. Oppure la raccolta ha preso forma in maniera spontanea e naturale?

«Non si può raccontare tutto e tutti, il lavoro di tanti anni ha portato a migliaia di incontri. Avrei potuto scrivere un libro molto più corposo ma a un certo punto sono andata per nuclei di senso. C’erano alcuni temi fondamentali, come quello della menzogna, delle promesse, della dualità. E ho cercato le cose più emblematiche. C’è stato anche un momento di confronto con l’editor Luca Briasco che ha seguito il montaggio dei pezzi, durante il quale, proprio nel raccontare a voce alta, mi sono resa conto di quali storie risuonassero maggiormente in me e mi facevano venire voglia di portarle come emblema.

Il libro nasce dalla volontà di lavorare per simboli e per storie che possano toccare più mondi. Ho necessariamente dovuto fare una selezione perché tutto non si poteva dire e ho scelto le storie più simboliche e che potessero essere universali. Sono scesa di numero per dare più nuclei di senso. Dopotutto, l’esperienza umana è simile in tutto il mondo: la perdita è la perdita, il dolore è dolore, la bellezza è la bellezza. Tutti sperimentiamo le stesse cose, ed è infatti di questo che parliamo nella letteratura. Una volta indagato il concetto, bastava una storia o due, altrimenti diventavano ridondanti. Scrivo come fotografo, mi toccano delle cose, ho le immagini vivide davanti e scrivo al presente, perché mentre scrivo rivivo quelle immagini come se stessero accadendo. Molte cose che ho scritto sono immagini che non ho scattato e quindi la serbo come ricordo dentro di me. Prima di tutto viene l’altro: scattare delle foto in determinati momenti poteva essere irrispettoso dell’altro, e quindi serbo gli scatti dentro di me e li riporto come storie».

Nel leggere “Incontri al confine” l’impressione che si può avere è quella di sfogliare un album fotografico, ma qui le “fotografie” non sono raggruppate per città o zone geografiche. Si salta infatti da Milano a Nairobi, da Finnmark a Israele, luoghi che apparentemente non hanno niente in comune. Forse proprio questa contrapposizione netta favorisce la riflessione sull’unicità e la gravità delle singole storie. D’altro lato però spesso le storie sembrano essere legate da continuità tematiche, come ad esempio un oggetto – penso qui al braccialetto di vetro dell’Olocausto e a quello numerico dei migranti in Svizzera -, oppure il mare, che può essere fine o inizio. Ecco, prevale un ordine cronologico o tematico dietro la struttura dell’opera? E che valore hanno per Lei gli “oggetti” di cui narra e che definisce gli occhi e l’anima di ogni persona incontrata?

«Gli oggetti tornano, certo. Il braccialetto di vetro lo paragono alla matita negli occhi nel campo profughi, dove l’aggrapparsi a un oggetto che ricorda la vita di prima, è un simbolo di resistenza. Non c’è un oggetto che vale più dell’altro perché sono tutte persone, tutti incontri e tutti doni, e hanno quindi lo stesso valore. Sono legata a tutti gli oggetti, e quindi a tutte le storie in quanto ognuna ha arricchito anche la mia storia».

“Incontri al confine”, Israele. Credits: Valentina Tamborra

Nella raccolta ci sono tanti parallelismi tra passato e presente e, in particolare, mi hanno colpito i riferimenti all’Olocausto, avvicinati al presente e ai genocidi in corso. Ad esempio, in “Chiave” si riflette sul “peso” della morte: il passato non basta come monito a non perpetuare ancora le stesse brutalità perché non tutte le vite sembrano essere uguali. Nel frattempo, tuttavia, la speranza di ritrovare la propria casa non svanisce persino negli angoli di mondo più grigi. Dopo aver conosciuto da vicino il bagliore che illumina il grigiore di simili realtà, crede che possa ancora esserci speranza?

«Si certo, il libro non contiene il dramma e basta. Il libro contiene uno sguardo verso un possibile futuro e uno sguardo diverso sul futuro. Credo nelle storie umane. È chiaro che il concetto di storia magistra vitae non è poi del tutto vero, perché ripetiamo continuamente gli stessi errori. Però credo nel valore del singolo e della singola azione. Credo nei singoli eroi, e questo libro è un libro sugli eroi: gli eroi sono le persone che incontro, da un’infermiera a un pastore, da una bambina col suo bambolotto a chi costruisce un bracciale di vetro, chi passa il kajal negli occhi. Tutte queste persone sono accumunate dal fatto di essere eroici a loro modo, resistenti e non aver perso la speranza. E se non la perdono loro chi siamo noi per perdere la speranza, che diritto abbiamo? Sono convinta che credere che non ci sia speranza stando sul divano di casa sia un’arroganza e una presunzione che non possiamo permetterci. Se certe persone vivono quello che vivono e non tornano a casa, mentre noi reporter torniamo a casa – se tutto va bene – e quindi noi nella speranza dobbiamo crederci altrimenti dobbiamo anche smetterla di fare questo mestiere».

“Incontri al confine” ci insegna a non rimanere indifferenti, ci spinge all’azione, a fare qualcosa nel nostro piccolo, senza mai perdere la speranza, perché anche il più piccolo gesto può fare la più grande differenza.

Nunzia Tortorella

Nunzia Tortorella
Avida lettrice fin dalla tenera età e appassionata di ogni manifestazione artistica. Ho studiato Letterature e culture comparate all'università di Napoli L'Orientale, scegliendo come lingue di studio il tedesco e il russo, con lo scopo di ampliare il mio bagaglio di conoscenze e i miei orizzonti attraverso l'incontro di culture diverse. Crescendo, ho fatto della scrittura il mio jet privato.

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