Entro il 2020 la deforestazione doveva ridursi del 50%, come firmato da ben cinquanta paesi e cinquanta fra le compagnie più grandi del mondo. Come si può immaginare, questo obiettivo non è stato raggiunto: molte regioni delle foreste tropicali e paesaggi forestali intatti sono minacciati da un impetuoso sviluppo delle infrastrutture su larga scala e dall’estrazione delle risorse naturali. Uno dei target individuati per invertire la rotta del cambiamento climatico sta dunque giungendo a un pericoloso turning point, un inglesismo che indica un punto di non ritorno, un cambiamento irreversibile nel sistema climatico mondiale. Il motivo di un tale fallimento risiede probabilmente nella crescente domanda di metalli, minerali estratti e combustibili fossili, che pesa sulle foreste ad alta biodiversità che ospitano un gran numero di preziose e ricercate materie prime.
I megaprogetti nelle foreste di Sud America, sud-est Asiatico e Africa centrale
Reti stradali e ferroviarie, miniere e dighe porteranno alla distruzione di interi settori di foreste in giro per il mondo, dall’America meridionale all’Estremo Oriente passano per il centro del continente africano. Come dichiara il giornale britannico Guardian, quasi la metà delle grandi miniere (circa 1.500) si trovano all’interno delle foreste. I cosiddetti “polmoni verdi” del mondo sono sottoposti a minacce estreme, essendo i principali bacini di risorse per il mercato mondiale.
Proprio l’accesso a questi mercati globali remoti richiedono infrastrutture per il trasporto delle materie prime e di impianti minerari che distruggono l’equilibrio di questi perfetti ecosistemi, creando danni persino maggiori rispetto a quelli causati dall’agricoltura. La vita sulla Terra e la biodiversità vengono sacrificate sull’altare degli interessi a breve termine, per colmare una fame illimitata di risorse. Una fame cieca e fiduciosa nella possibilità per l’uomo di avere un predominio eterno e incontrastato sulla natura. Eppure, la protezione di queste aree incontaminate rappresenta uno dei 9 planetary boundaries, quei confini che non possono essere valicati nella lotta al cambiamento climatico. La variazione nell’uso delle terre, come avviene nelle foreste, costituisce una minaccia per la biodiversità, impattando negativamente sui cicli dell’acqua e sul ciclo biogeochimico di carbonio, azoto, fosforo e altri elementi fondamentali. Oltrepassare questo limite significherebbe tirare i remi in barca e abbandonarsi ai drammatici effetti del cambiamento climatico sull’intero pianeta.
Nel 2014 oltre 200 fra governi, compagnie multinazionali, comunità indigene e organizzazioni non-governative hanno firmato la Dichiarazione di New York sulle foreste (NYDF), impegnandosi a raggiungere obiettivi ambiziosi per tutelare questi territori e porre fine alla deforestazione. La valutazione annuale dei progressi del NYDF si è focalizzata quest’anno su due fondamentali obiettivi per raggiungere uno sviluppo sostenibile, in un’ottica di contrasto al cambiamento climatico:
- Obiettivo 3. Ridurre significativamente la deforestazione dovuta da altri settori economici entro il 2020.
- Obiettivo 4. Sostenere pratiche alternative alla deforestazione considerando i bisogni di prima necessità delle popolazioni (come l’agricoltura di sussistenza e la dipendenza dai combustibili a base di legno per l’energia) in modo da alleviare la povertà e promuovere uno sviluppo sostenibile ed equo.
Questi traguardi sono accompagnati da 4 strategie indispensabili per contrastare i rischi crescenti a cui sono sottoposte le foreste di tutto il mondo. In primo luogo, come segnala il report di valutazione, occorre adottare veri e propri percorsi di sviluppo sostenibile, ponendo un freno al sovra-sfruttamento, alla produzione inefficiente e all’eccessivo consumo di risorse. Non meno importante risulta l’allineamento fra la pianificazione macro-economica e strategica con gli obiettivi per la tutela delle foreste. Inoltre, è necessario promuovere mezzi di sussistenza sostenibili e dare priorità alle attività di mitigazione, riducendo l’impatto delle infrastrutture e delle industrie estrattive.
In particolare, viene evidenziato come la maggioranza dei paesi abbia adottato standard per ridurre l’impatto ambientale e sociale, attraverso la chiusura delle miniere e il ripristino della biodiversità. Eppure, queste politiche sono spesso progettate in maniera poco congrua rispetto agli obiettivi di deforestazione, oppure carenti dal punto di vista della loro applicazione. In aggiunta, i settori estrattivi e delle infrastrutture continuano a operare in un contesto di opacità e mancanza di trasparenza, al pari dei governi che annunciano megaprogetti e pianificazioni macroeconomiche realizzate a porta chiusa, senza la partecipazione della società civile e dei movimenti dal basso.
La devastazione dell’Amazzonia e il cambiamento climatico
Secondo uno studio dello Stockholm Resilience Centre, il 40% della foresta amazzonica è divenuta una sorta di savana, giungendo a un punto di non ritorno. Con il diradarsi degli alberi e la formazione di praterie sono aumentati gli incendi e si verificano periodi di siccità prolungata nel tempo. La mancanza di precipitazioni mette a dura prova la sopravvivenza di questi ecosistemi, essendo le foreste pluviali molto sensibili alle variazioni di pioggia e umidità, un altro effetto del cambiamento climatico. Il WWF (in questa pagina web è presente una mappa interattiva degli incendi in corso) evidenzia come il Brasile sia responsabile della metà della deforestazione, mettendo in luce la gravità di questa emergenza. Di fatti, l’Amazzonia costituisce un terzo della foresta pluviale rimanente nel mondo e ospita una ricchissima biodiversità: fra il 10% e il 15% delle specie viventi conosciute finora, con il 75% di specie vegetali autoctone della foresta amazzonica.
In un solo anno gli incendi sono aumentati del 60%. Questi focolai sono perlopiù accesi da coloro che vogliono sfruttare la foresta a scopo agricolo, di allevamento, minerario e le relative infrastrutture. In Brasile minatori legali e illegali in cerca d’oro (il prezzo è aumentato del 35% durante la pandemia) arrivano a distruggere le riserve abitate dalle comunità indigene con il beneplacito del presidente Jair Bolsonaro. Mentre in Bolivia è stato annunciato lo stato di “catastrofe nazionale” a causa della siccità e degli incendi.
Anche Perù e Ecuador sono caduti nell’occhio del ciclone nel dicembre dello scorso anno, durante la COP-25 svoltasi a Madrid. Gruppi indigeni e ambientalisti hanno protestato durante la Conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico, chiedendo una moratoria immediata del piano dei due governi sudamericani per allargare l’esplorazione e lo sfruttamento di una delle regioni più ricche di biodiversità al mondo, le cosiddette Cuencas Sagradas del Amazonas, ad est dei due Paesi, in cui vivono 500.000 indigeni, alcuni dei quali non hanno mai avuto contatti con il mondo esterno. Nascosto sotto quest’area incontaminata si trovano circa 5.000 milioni di barili di petrolio. Da qui l’interesse dei governi, che hanno sempre negato l’esistenza di questo accordo. Tuttavia, gli attivisti hanno portato alla luce diversi “segnali” che dimostrerebbero le reali intenzioni di entrambi i Paesi, come la riforma della legge degli idrocarburi in Ecuador e la proposta di riforma al Parlamento peruviano allo scopo di “resuscitare l’industria del petrolio”, come annunciato dal Ministro Koening. Inoltre, l’Ecuador ha annunciato all’inizio di quest’anno l’uscita dall’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, in modo da poter aumentare liberamente la propria produzione.
Nonostante le brutte notizie, i movimenti dal basso costituiscono una grande speranza per la lotta al cambiamento climatico e per la protezione delle foreste, creando reti internazionali di popolazioni indigene, comunità locali, piccoli proprietari e società civile. Le loro mobilitazioni hanno spesso permesso la cancellazione o il ritardo di grandi progetti per la costruzione di infrastrutture su larga scala, dimostrando che uno sviluppo guidato dal basso e una gestione delle aree forestali da parte delle stesse comunità non è solo possibile, ma anche auspicabile.
Rebecca Graziosi