Di niente più della passione amorosa i grandi autori si sono preoccupati di scrivere nel corso dei secoli: l’amore è da sempre oggetto privilegiato non solo della letteratura e dell’arte narrativa, ma anche del linguaggio in generale. Inesauribile è il desiderio di scrivere e parlare d’amore. E così è stato anche per Giovanni Boccaccio, che nella nona novella della quarta giornata del Decameron racconta (o, meglio, fa raccontare) di un amore ferito e geloso, di un amore tradito che conosce l’umiliazione dell’abbandono. L’amore − sembra ammonirci Boccaccio − è per sua natura un gioco sleale e disonesto; il tradimento fa già da sempre parte della sua trama irrazionale.

La novella è il racconto della storia di vendetta e tradimento di messer Guiglielmo Rossiglione e messer Guiglielmo Guardastagno, nobili cavalieri della Provenza«de’ quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé», legati da un’amicizia profondissima e quasi simbiotica (non a caso Boccaccio sceglie di dare ai due personaggi lo stesso nome):

E perciò che l’uno e l’altro era prod’uomo molto nell’arme, s’armavano assai e in costume avean d’andar sempre a ogni torneamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’una assisa.     

A rompere questo equilibrio affettivo è Guardastagno, che, incurante dell’amicizia e della fratellanza d’armi che da anni lo unisce a Rossiglione, si innamora «fuor di misura» della sua «bellissima e vaga» moglie. La donna, il cui nome è scrupolosamente celato al lettore, accortasi delle attenzioni dell’amico del marito se ne innamora a sua volta, non desiderando altro che «esser richiesta» da lui. I due amanti, travolti dalla passione, imprudentemente e senza rispetto delle formalità, non si preoccupano di essere discreti e tenere nascosta la loro relazione. Presto Rossiglione si accorge del tradimento, sdegnandosene profondamente.

Quando però scopre di essere stato ingannato − e qui la novella di Boccaccio presenta livelli di lettura più problematici − il suo «maltalento», il suo rancore, è rivolto non tanto alla moglie, alla quale sembra essere legato da un sentimento tiepido, ma all’amico, al punto che, si legge, «il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì». All’amore «fuor di misura» di Guardastagno per la moglie di Rossiglione si oppone il bene smisurato e, forse, con il rischio di operare una forzatura sul testo e di eccedere le intenzioni dell’autore, proibito, di Rossiglione per Guardastagno. Sta poi al lettore decidere in che modo interpretare ciò che Boccaccio definisce come «grande amore».

La vendetta è terribile e spietata: cogliendolo di sorpresa nel bosco, Rossiglione apre il petto di Guardastagno con un coltello, traendone il cuore ancora palpitante a mani nude. Una volta commesso l’omicidio, Rossiglione incarica il cuoco di sminuzzare il cuore insaporendolo con delle spezie, e di portarlo poi alla tavola della moglie adultera, che, ignara, lo mangia con gusto. Rossiglione intesse con cura la rappresentazione della propria vendetta: appositamente si mostra senza appetito per lasciare alla moglie l’intera pietanza.

Quando con fredda lucidità e ironia confessa tutto («io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque»), la moglie, in preda alla follia e alla disperazione, si getta da una finestra disfacendosi tutta («e quasi tutta si disfece»). La mattina seguente i corpi degli amanti vengono sepolti insieme nella chiesa del castello di Rossiglione, che, turbato per l’accaduto e spaventato dalle possibili conseguenze del delitto, si allontana per sempre.

L’ultima parte della novella è la più interessante e ricca di immagini. Nel suo bisogno di vendicare il torto subìto, schiavo di un orgoglio ferito e offeso, Rossiglione condanna se stesso a una solitudine eterna. In fondo questa novella più che la storia di un triangolo amoroso è il racconto di un uomo solo che, non amato da nessuno − né dall’amico che ne tradisce la fiducia, né dalla moglie che preferisce uccidersi piuttosto che sopravvivere all’amante − si consuma, vittima di se stesso, nel fuoco delle proprie passioni.

Uccidendo Guardastagno, però, e dando da mangiare il cuore di questi alla moglie, egli non fa che esasperare la propria condizione: il suo gesto contribuisce a ricongiungere, e questa volta per sempre, i due amanti, allontanandoli definitivamente da sé. Una volta che ne mangia il cuore, la moglie senza nome di Rossiglione diventa una cosa sola con l’uomo che ama. Ciò che prima era suo solo idealmente, ora le appartiene di fatto, come un pezzo del suo stesso corpo.

La morte inoltre, subita dall’uno e desiderata dall’altra (ma in entrambi i casi violenta e dolorosa), non li separa, come spesso capita agli amanti, ma li riporta l’uno accanto all’altro e l’uno nell’altro, in una dimensione eterna che non conosce ostacoli. E, ancora, questa duplice morte, per quanto diversa nelle cagioni, trova i due amanti affini: come il cuore dell’uomo viene fatto a pezzi dalle mani esperte del cuoco, così il corpo della donna si disfa e perde integrità nell’impatto con il suolo.

Nessuno esce indenne da questo gioco pericoloso. Anche Rossiglione è fatto a pezzi, anche lui, che è il fautore della tragedia, è diviso, scisso. Egli infatti, prima che la moglie si appresti a mangiare il cuore di Guardastagno, si sente «nel pensiero impedito». La sua coscienza è intaccata dal senso di colpa, lacerata dal rimorso, che sempre pone un confine tra ciò che si è già fatto e ciò che, ora, si preferirebbe non aver fatto mai.

Ed è con questo fardello che Rossiglione si allontana dal suo castello, oppresso dalla paura di essere punito e umiliato nuovamente, e portando con sé l’amara consapevolezza di aver perduto per sempre se stesso e l’altro, quell’altro – qualsiasi esso sia per il lettore – da cui non ha mai ottenuto l’amore sperato.

Federica Spera

 

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