Negli ultimi dieci anni, la famiglia Āl Saʿūd sta cercando di cambiare l’immagine dell’Arabia Saudita a livello internazionale avvalendosi del soft power, ovvero una forma efficace di esercizio del potere inteso come capacità di ottenere i risultati desiderati senza utilizzare metodi coercitivi. Il Fondo per gli investimenti pubblici dell’Arabia Saudita (PIF), un fondo sovrano legato al membro della famiglia reale Mohammad bin Salman Al Sa’ud, sta investendo di fatto il proprio patrimonio derivante dalla vendita del petrolio che si aggira intorno ai 370 milioni di euro. Un’operazione che sta consentendo agli investitori sauditi di diversificare l’impiego delle loro risorse finanziarie, in modo da gestire il rischio in maniera più efficiente e nel contempo permettere all’economia del regno di non essere più dipendente dalla sola produzione del petrolio, come richiesto dal piano governativo «Vision 2030».
Il fondo PIF sta investendo non solo nella costruzione di città industriali, ma anche in una serie di settori dell’intrattenimento, tra i quali figura lo sport, in modo tale da provare a cambiare la propria reputazione. Lo dimostra la sua crescente presenza all’interno della Formula 1, del golf, del wrestling, della pallamano, del rally, in concomitanza all’industria dei videogiochi. Ne consegue il rilevamento di una squadra di Premier League come il Newcastle United Football Club e la volontà del fondo saudita di essere lo sponsor principale dei Mondiali di calcio femminile in programma in Australia e Nuova Zelanda, tramite l’ente del turismo Visit Saudi. Inoltre, l’Arabia Saudita sta pianificando di espandere la propria presenza anche nel ciclismo come sponsor di maglia. L’obiettivo è non solo quello di contendersi gli eventi sportivi con gli altri paesi del Golfo Persico, ma soprattutto diventare sempre più un punto di riferimento del settore a livello internazionale.
Ma è soprattutto il calcio che è stato individuato come il principale sport sul quale fare affidamento per migliorare la propria immagine nel mondo. La volontà delle squadre saudite di acquistare il cartellino di calciatori che militano in campionati europei non è nuova, dato che la tendenza affonda le proprie radici alla fine degli anni Novanta, quando alcuni giocatori – tra cui anche l’italiano Roberto Donadoni – scelsero la Saudi Pro League come campionato ideale per trascorrere gli ultimi anni della loro carriera. Nel tempo, la reputazione del campionato saudita è cresciuta fino a raggiungere la sua massima visibilità durante la scorsa sessione di calciomercato, quando il fuoriclasse portoghese Cristiano Ronaldo ha deciso di trasferirsi all’Al-Nassr. Da quel momento in avanti, le squadre del fondo saudita, ossia l’Al-Ittihād, l’Al-Nassr, l’Al-Hilal e l’Al-Ahli, hanno iniziato a concludere una serie di acquisti importanti per assicurarsi le prestazioni di numerosi giocatori che giocano nei maggiori campionati europei, i quali stanno principalmente scegliendo Riyad per firmare l’ultimo contratto milionario della loro carriera.
Non è certamente il fascino del campionato che sta spingendo i giocatori a trasferirsi in Arabia Saudita, ma in primis i generosi contratti milionari che stanno venendo offerti loro. La rivista statunitense Forbes fa sapere che il giocatore più pagato è proprio il lusitano, con “solamente” 70 milioni netti all’anno a libretto paga, ma che con sponsor e bonus potrebbero arrivare fino a 200 a stagione. Dietro al portoghese si posiziona il suo vecchio compagno di squadra ai tempi del Real Madrid, il calciatore francese di origini algerine Karim Benzema che percepirà dall’Al-Ittihād un ricchissimo contratto di 100 milioni all’anno. A seguire, l’ala algerina ormai ex Manchester City, Riyad Mahrez, che guadagnerà 50 milioni a stagione, fino al mediano francese N’Golo Kanté che ne guadagnerà 25. Ma a giocare nella Saudi Pro League quest’anno troveremo anche alcune conoscenze del nostro campionato, come il difensore senegalese Kalidou Koulibaly e il regista croato Marcelo Brozović che guadagneranno a testa una cifra intorno ai 30 milioni.
Del resto le risorse finanziarie ai miliardari sceicchi proprietari delle squadre saudite non mancano, ma il movente economico non spiega del tutto questa moltitudine di trasferimenti. Bisogna tenere presente, infatti, che molti calciatori che si stanno trasferendo in Saudi Pro League vogliono essere visti dagli arabi come veri e propri modelli sportivi di fede islamica da prendere come riferimento. Non a caso Karim Benzema, ai microfoni ufficiali dell’Al-Ittihad, ha dichiarato: «Sono musulmano, è un paese musulmano e voglio vivere lì. È bello essere in un paese musulmano dove sento già che la gente mi ama. Questo mi permetterà di iniziare una nuova vita. Voglio parlare fluentemente l’arabo, per me è importante. La Mecca poi è vicina ed è importante per un credente come me. Sono al mio posto. Quando ho parlato con la mia famiglia erano tutti molto felici, ci siamo resi conto che il nostro posto è in Arabia Saudita». Sulla stessa lunghezza d’onda si posiziona l’ex difensore del Napoli, Kalidou Koulibaly, il quale in un’intervista al Corriere dello Sport ha esternato tutta la sua felicità per essersi trasferito in Arabia Saudita essendo lui musulmano.
Tuttavia hanno deciso di trasferirsi in Arabia Saudita non solo giocatori in là con gli anni o che professano la religione islamica. Fanno infatti eccezione il 26enne centrocampista portoghese Rúben Neves ed il 28enne calciatore serbo Sergej Milinković-Savić. L’ex capitano del Wolverhampton ha affermato di aver scelto la scelto la Saudi Pro League per dare alla sua famiglia la vita che ha sempre voluto offrire loro, dato che guadagnerà 25 milioni all’anno. In ogni caso, Rúben Neves ha dimostrato di non aver lasciano la propria squadra a cuor leggero, dato che ha manifestato, attraverso varie dichiarazioni, tutta la sua commozione mista ad orgoglio per aver avuto l’onore e la responsabilità di portare al braccio la fascia da capitano dei Wolves. Prende invece le distanze da ragioni prettamente familiari il centrocampista ex Lazio Milinković-Savić, che ha espressamente ammesso di essersi fatto attrarre da un mondo diverso rispetto al proprio.
Anche il fascino esotico dell’Arabia Saudita sta infatti spingendo i giocatori a lasciare le società europee per una nuova avventura in terra araba. Una visione eccessivamente enfatizzata del Medio Oriente che sta portando organizzazioni non governative, come Amnesty International, a sostenere che la società saudita sia ferma nel passato e perciò non sviluppata abbastanza per garantire il rispetto dei diritti umani. Ne consegue che queste associazioni hanno denunciato la famiglia Āl Saʿūd di praticare sportwashing, ovvero la capacità di organizzare eventi sportivi e attrarre atleti famosi grazie a enormi quantità di denaro o per merito del fattore religioso, con il fine di distogliere gli appassionati dalle violazioni dei diritti umani e ripulire l’immagine dell’Arabia Saudita. Sostenitori – oramai sempre meno politicizzati – pronti a cambiare idea di fronte alle prime prestazioni convincenti del proprio atleta preferito o alla realizzazione di imponenti eventi sportivi.
Il progetto saudita potrebbe tanto avere successo e riuscire a intaccare l’egemonia europea all’interno del calcio, quanto essere l’ennesima bolla speculativa destinata a scoppiare, proprio come già successo nel recente passato con quella cinese ed ancor prima con quella indiana. Tuttavia, il primato europeo nel gioco del pallone sta venendo messo sempre più in discussione da varie parti del globo. Lo dimorano la pianificazione e le strutture all’avanguardia delle squadre statunitensi che stanno convincendo giocatori del valore di Lionel Messi a trasferirsi nel paese a stelle e strisce. Applicazione e tecnologia che stanno consentendo agli Stati Uniti di essere punto di riferimento per il calcio nel continente e trasformare il richiamo del calcio latinoamericano in un romantico ricordo.
Staremo perciò a vedere, nei prossimi anni, se quella saudita e quella statunitense sono solo delle tendenze sportive passeggere, oppure se continueranno ad essere una destinazione gradita agli atleti. Quello che è certo è che questi segnali sono la dimostrazione che stiamo andando incontro ad un mondo sempre più multipolare, dove il Vecchio Continente incomincia a dover competere con altri attori regionali non solo a livello economico e politico, ma anche per attrarre risorse immateriali come le diverse forme di intrattenimento ed in particolare lo sport.
Gabriele Caruso