Si prospettano settimane difficili per la cancelliera Angela Merkel, in seguito all’ondata di violenza che in questi ultimi giorni ha travolto la Germania. Dovrà fare i conti non solo con un’opinione pubblica in preda al panico, ma anche con le pesanti critiche provenienti dal partito di destra Alternative für Deutschland (AfD), che sostanzialmente le attribuisce la responsabilità dell’accaduto.

In poco meno di una settimana un rifugiato afgano di 17 anni sale su un treno e ferisce a colpi di ascia 4 passeggeri (18 luglio), a Monaco un tedesco di origini iraniane, con la freddezza di un cecchino, uccide a colpi di pistola 9 persone e ne ferisce 36 (22 luglio), a Reutlingen un rifugiato siriano uccide una donna incinta con un machete e ad Ansbach, durante un festival, un altro migrante siriano si fa esplodere ferendo 12 persone (entrambi il 24 luglio). È importante sottolineare come solo tre di loro fossero rifugiati, il mandante dell’attentato di Monaco era un tedesco di seconda generazione, e come solo il primo e l’ultimo attentato siano stati direttamente rivendicati dallo Stato Islamico.

Questa escalation di violenza riaccende in Germania il dibattito rispetto l’efficacia della politica migratoria d’apertura adottata dalla Merkel e dal suo establishment. Solo nel 2015 la Germania ha accolto 4 milioni di profughi provenienti da Siria, Afghanistan e Iraq, e se da un punto di vista economico la politica delle “porte aperte” della Merkel si era dimostrata economicamente lungimirante, adesso si presenta come un’arma che l’AfD sta indirizzando contro la cancelliera stessa.

La politica d’asilo contro cui si scaglia l’AfD è quella messa in atto dalla Merkel a partire da settembre dello scorso anno.

Tutto ebbe inizio durante l’estate del 2015, quando rimbalzava all’impazzata in tutti i quotidiani del mondo l’immagine della Merkel mentre cercava di spiegare ad una bambina palestinese in lacrime, destinata ad essere rimpatriata, che non tutti i richiedenti asilo possono rimanere in Germania. Sarebbe favolistico pensare che la cancelliera umanamente sconvolta dallo scontro con la dura realtà impressa negli occhi di quella bambina abbia poi deciso a settembre dello stesso anno di aprire le frontiere, così come sarebbe altrettanto irreale, sebbene confortante, pensare che tale apertura fosse la risposta dovuta ad un imperativo morale a cui l’Europa tutta non poteva più sottrarsi.  In realtà, la Merkel insieme al suo partito Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU) era consapevole del fatto che la Germania avrebbe perso circa dieci milioni di abitanti, nonché il 25% della forza lavoro, entro la metà del secolo, per cui l’apertura ai profughi, oltre ad essere un atto umanitario necessario, divenne una risposta efficace alla crisi economica.

Sino ad oggi la crisi dei rifugiati non ha rappresentato uno strumento di rivalsa per gli oppositori politici della Merkel, ma in seguito a quanto accaduto non si può non notare come le politiche d’asilo adottate in Germania in questi anni influiranno sulla valutazione degli elettori per le legislative del 2017.

Precedentemente, la cancelliera aveva scongiurato l’attecchirsi delle critiche dell’AfD relative alla politica d’asilo eccessivamente “ospitale” con la decisione di chiudere la rotta che passava attraverso i Balcani e con l’accordo europeo con la Turchia  in questo modo, difatti, già ad aprile 2016 il numero degli immigrati arrivati in Germania era drasticamente diminuito rispetto al 2015.

Ovviamente, in seguito agli attentati il dibattito politico si è riacceso e la tensione è palpabile nelle accuse racchiuse in un comunicato ufficiale dell’AfD, che pone un ultimatum al governo recitando:

«Giorno dopo giorno arrivano nel nostro paese attraverso le frontiere aperte persone che, a causa della loro origine culturale, rappresentano un enorme potenziale conflittuale per la nostra società. Non si può scartare l’idea che vi siano terroristi all’interno di questo flusso migratorio. Se il governo non si impegna a trovare una posizione chiara su questo punto, si rende complice dei crimini che possono avvenire».

Persino Seehofer del partito CSU, fratello bavarese della CDU, ha criticato la politica di apertura  verso i rifugiati, affermando che «Il terrorismo islamista è arrivato in Germania».

La Merkel, in seguito agli attentati e alle accuse che le sono state rivolte da più fronti, dichiara di essere sconvolta per la violenza che ha insanguinato la nazione e invita il popolo tedesco a non operare facili generalizzazioni accusando di terrorismo ogni rifugiato. Alla conferenza stampa tenutasi il 28 luglio, parla delle violenze di Würzburg e Ansbach come «di attacchi terribili, oppressivi e deprimenti. Attacchi con cui si rompe ogni regola di civiltà condotti in luoghi in cui ciascuno di noi poteva trovarsi».
Secondo la cancelliera, la sfida messa in atto dagli attentati terroristici che stanno mettendo in crisi l’Europa va vinta applicando le misure necessarie a dare più sicurezza ai cittadini (anche attraverso la collaborazione tra intelligence europee) e favorendo l’integrazione. «La Germania afferma resta fedele ai suoi principi e darà rifugio a chi lo merita», dunque niente passi indietro sui provvedimenti adottati dal governo riguardo all’immigrazione, poiché non può essere la paura a decidere l’azione politica e tantomeno a modificarla.

In queste dichiarazioni, però, sembra non risuonare più la lucida speranza racchiusa nelle poche parole che pronunciò il 4 settembre 2015 all’apertura delle frontiere: «wir schaffen das» (tr. «ce la faremo»), ma piuttosto risuona la mestizia di una leader politica che a pochi mesi dalle elezioni dovrà scontrarsi contro gli avversari politici parzialmente disarmata, con alle spalle un elettorato impaurito e influenzabile.

Sara Bortolati

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