Cosa insegniamo a scuola se parliamo solo di diritti umani?
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Da tempo ormai si parla dell’importanza di sviluppare l’Intelligenza emotiva e per questo i sistemi scolastici si sono adoperati per rendere effettivo l’insegnamento di tali abilità. Una di queste è l’empatia, poiché solo educandoci a metterci nei panni dell’altro possiamo riuscire a capire la gravità di quello che facciamo o che ignoriamo di fare. Tuttavia l’attenzione è rivolta solo ai diritti umani, rendendo quella umana l’unica specie meritevole di rispetto. Invece, il mondo della conoscenza ci ha dimostrato che le emozioni appartengono a tutti gli esseri viventi. Da tempi immemori una grande quantità e varietà di lavoro è stata svolta in merito alla questione dei diritti degli animali, ma ciò viene deliberatamente o distrattamente dimenticato.

Appare un’evidente contraddizione indignarsi per le grandi tragedie della storia umana ma accettare quel che ogni giorno viene perpetrato ai danni degli animali. Parlare di libertà e considerare normali circhi e zoo. Che tipo di efficacia può avere quell’educazione al rispetto e all’equità, se dietro cela discriminazione verso creature, maschi e femmine, mamme, figli e figlie di specie diverse? Non è l’agnello il figlio di una mucca e non è la mucca stessa una donna? Dove sta la differenza? Se il giudizio si basa su una valutazione morfologica, allora dovremmo considerare tutto ciò che si discosta come “altro”, “diverso”.

Ma chi sono gli altri? E verso chi abbiamo delle responsabilità? Potremmo mai essere davvero solidali se continuiamo a considerare la specie umana meritevole di attenzione tralasciando il senso della vita in tutte le sue forme? A cosa mira l’educazione al rispetto, se non alla riduzione, a un’auspicabile abolizione della sofferenza? La domanda da porsi non è se possono ragionare o parlare, ma se possono soffrire. È questo il punto da cui si dovrebbe partire per strutturare un concetto di cultura del rispetto, della giustizia e dell’equità. Posto in questi termini è ovvio che non sia possibile escludere gli animali dall’educazione dei diritti, bensì è necessario cambiare rotta e proporre un’educazione finalizzata all’acquisizione, nel modo di pensare o nella pratica quotidiana, ai non appartenenti al proprio gruppo uguali considerazione e rispetto.

Tom Regan sostiene che chi si oppone al riconoscimento dei diritti animali difficilmente potrà difendere i diritti di quegli esseri umani che, come i neonati, i bambini, i pazienti gravemente malati e le persone menomate, non hanno voce per imporsi, né per difendersi. Ecco perché la teoria filosofica elaborata da Regan non è animalista. È una teoria dei diritti nel senso più vasto, che abbraccia considerazioni morali verso gli altri, umani o non umani che siano.

La scuola è il luogo più adatto per educare alle abilità emotive, e non ci sarebbe bisogno di ristrutturane l’impianto ma solo di spostare gli orizzonti oltre i diritti umani. Empatia, rispetto, equità dovrebbero essere valutati in considerazione di ciò che Bentham affermava, cioè della riduzione della sofferenza. È questo il caso della didattica antispecista già raccontata da questo giornale, in cui si sottolinea che il termine è solo una formula convenzionale per indicare il punto di inizio per identificare la negazione dei diritti. L’attuale società ha ben sviluppato la teoria dei diritti umani e le istituzioni preposte l’hanno addirittura proposta come materia di studio. Ma nulla o poco si dice ancora della sofferenza che subiscono gli altri animali da parte dell’umano, e poco si concettualizza l’idea del dolore da parte degli animali nonostante la letteratura (scientifica e umanistica) se ne sia occupata da tempi immemori. E allora spetta a noi riportarla in auge.

Si è passati dai cross cultural studies ai gender studies e adesso a quelli intersezionali. Tuttavia in nessuno di essi viene ancora sottolineato l’aspetto antispecista.

Da qui nasce il “progetto” di didattica antispecista, che quest’anno si è particolarmente concentrato sull’Agenda 2030 in cui è stato messo in evidenza che la definizione di “programma inclusivo” è fuorviante e discriminante poiché esclude gli animali come soggetti di diritto. Ciò dimostra quanto ancora sia radicato lo specismo nella nostra cultura. Che lo si condivida o meno, l’antispecismo è un’ideologia ormai strutturata, ed eluderla impedisce quella crescita morale e culturale tanto decantata dalle raccomandazioni del Consiglio d’Europa. Lo stesso, infatti, è partito dalla dichiarazione dei diritti umani per la creazione di un programma di cittadinanza e costituzione. Ma non ha preso in considerazione una dichiarazione analoga sottoscritta a Parigi nel 1978 (30 anni dopo quella dei diritti umani) relativa ai diritti degli animali. Attenersi, dunque, alle indicazioni europee vuol dire non offrire ai discenti occasioni di crescita culturale.

Specularmente, l’antispecismo può essere visto come lo sviluppo storico di quelle ideologie che prevedono la progressiva sostituzione di visioni del mondo gerarchiche. In questo senso, l’antispecismo è quella rivoluzione morale copernicana che attualizza le migliori intuizioni della nostra tradizione culturale, che storicamente ha tradito il suo essere più profondo, cioè la richiesta di eguale considerazione per tutti coloro che condividono le medesime caratteristiche moralmente rilevanti. L’antispecismo, infatti, accogliendo gli sviluppi più recenti della filosofia morale e le acquisizioni empiriche sulla complessità mentale degli altri animali, inserisce questi ultimi a pieno diritto all’interno della sfera della considerazione etica, sbarrando definitivamente la strada sia a teorie perfezionistiche sia a teorie ambientaliste di stampo olistico, portando così diritti/interessi umani e diritti/interessi degli altri animali su un terreno più solido e sicuro.

Il rispetto è importante perché nessun individuo può sopravvivere da solo e le ingiustizie diminuiscono la qualità della vita a livello personale, locale e globale. Ciò che consideriamo “Necessario, Naturale e Normale” (secondo la classificazione di Melanie Joy)  ha un effetto negativo su noi stessi. Ad esempio, è normale mangiare la carne, ma non lo è se consideriamo tutte le catastrofiche conseguenze che derivano dalla sua produzione: è necessario finché non ci accorgiamo che esistono metodi più sostenibili per nutrirsi ed è naturale solo ciò che è legato alla nostra abitudine. Tuttavia, non è solo perché le nostre considerazioni aprioristiche ricadono su di noi; il dovere di prendersi cura degli altri è parte di una morale fondamentale che si trova in tutte le culture e le religioni. Solo con la piena consapevolezza, comprensione e rispetto dei diritti possiamo sperare di sviluppare una cultura in cui gli stessi siano rispettati, piuttosto che violati. Il diritto all’educazione ai diritti è quindi sempre più riconosciuto come un diritto di tutti in sé. Una cultura dei diritti umani non è una cultura dove ciascuno conosce i propri diritti, perché la conoscenza non è necessariamente sinonimo di rispetto: e senza il rispetto avremo sempre delle violazioni.

È chiaro, dunque, che il termine viene posto solo per contraddistinguere il pensiero controcorrente. Posto che lo “specismo” non è che un altro dei molti pregiudizi irrazionali, infondati e infondabili, identico a quelli con cui la nostra specie si è resa responsabile di orrori a carico di gruppi umani ritenuti “inferiori” (cioè moralmente assimilabili agli altri animali). Anzi, per molti pensatori, lo specismo andrebbe considerato come l’aspetto fondativo di quel pensiero dualistico che istituisce scale gerarchiche tra esseri moralmente simili sulla base di mere differenze biologiche che, come tali, sono completamente irrilevanti sul piano della considerazione etica. In questo senso, lo specismo sussumerebbe in sé tutte quelle ideologie che intendono tracciare una linea invalicabile tra noi e loro, qualunque siano i “noi” e qualunque siano i “loro”, dove ai “noi” sono concessi diritti e dominio e ai “loro” sofferenza e oppressione.

Nessuna educazione al rispetto potrà essere mai completa senza il ricongiungimento dell’ultimo anello della catena e finché non si supererà la dicotomia “specismo vs. antispecismo”  nessun progresso morale sarà mai davvero efficace.

di Paolo Treglia, del Comitato Europeo Difesa Animali onlus

1 commento

  1. L’uomo ego che si irradia tra i politici e le religioni esteriori da sempre sono per il separa ,lega e domina,sono energie che irradiano una mancanza di amore,di bontà e di misericordia e condizionano i popoli a segurli e i risultati sono disprezzo tra gli uomini,la natura e gli animali. Per chi crede al vero Dio dell’amore agisce per il bene comune tra gli uomini,la Madre Terra e gli animali e solo adempiendo questa sacra legge l’uomo creerà un mondo di Pace e fratellanza come era ed è nella volontà di Dio che è Amore.

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