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Pinkwashing [Credits: Dean Spade, Professore Associato della Seattle University School of Law e attivista trans]

Sicuramente Eurovision, che quest’anno si è tenuto in Israele, non è passato inosservato. Dalla chiamata al boicottaggio del movimento BDS, accusato di antisemitismo dal governo tedesco, alla dubbia esibizione “pacifisticheggiante” di Madonna fino al gesto inutile e controproducente degli islandesi Hatari (che ci piaccia o no, attraversare la linea del picchetto significa sconfessare l’azione collettiva dello sciopero).

Non solo. Una grande attenzione ha meritato anche lo spot che la televisione israeliana ha pubblicato per invitare le persone a visitare “la terra del miele e del latte”, una specie di musical (tra le location compare anche Gerusalemme occupata) in cui si fanno una serie di battute, non solo squallide ma anche parecchio ambigue, un concentrato di stereotipi e propaganda (traduco dal videoSo cosa avete appena sentito/che questa è una terra di guerra e di occupazione/ma abbiamo molto più di questo/guardi i prezzi e dici: “cosa?”/ci piace chiamarci la nazione startup“).

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Il gruppo islandese Hatari sventola una bandiera palestinese prima della vittoria a Eurovision 2019 [Credits: Rai].

Un altro dei temi caldi è stato quello del pinkwashing.

Per chi non lo sapesse, con il termine pinkwashing (potremmo tradurre imbiancare, nel senso di nascondere, col rosa) si fa riferimento a tutta una serie di strategie di marketing che mirano a vendere un prodotto facendo appello ad un’immagine gay-friendly, progressista e moderna.

Il termine, coniato a metà degli anni ’80 per descrivere le aziende che stavano approfittando dell’etichetta della lotta al cancro al seno per trarre profitto, ha iniziato ad essere applicato al progetto sionista dagli attivisti LGBT+ palestinesi già a partire dal 2010.

A partire dal 2005, lo Stato di Israele ha investito fiumi di shekel nel progetto Brand Israel, il cui obiettivo è quello di sostituire l’immagine militaristica e religiosa che l’Occidente ha del paese con una più moderna e progressista. Il tutto a spese dei palestinesi.

Ma lo Stato di Israele è davvero gay-friendly o è solo pinkwashing?

Innanzitutto c’è da chiarire un fatto: la storia di Israele pro-LGBT+ è tutto fumo negli occhi.

https://www.youtube.com/watch?v=HOXs0stI4Hc
A maggio dell’anno scorso la televisione olandese ha trasmesso la performance della comica Sanne Wallis de Vries, una parodia della canzone “Toy” di Netta Barzilai vincitrice di Eurovision 2018 (un altro esempio di pinkwashing e purplewashing, ovvero l’utilizzo strumentale del femminismo). La parodia, una critica allo Stato di Israele e all’occupazione delle terre palestinesi, si è attirata l’accusa di antisemitismo.

Sarebbe bello credere alle splendide immagini (promosse con fondi governativi tramite l’acclamatissimo Gay Pride di Tel Aviv) di Israele come oasi gay in mezzo ad un deserto mediorientale popolato da omofobi barbuti.

Se si guarda solo al dato politico, i grandi successi in termini di diritti civili per la comunità LGBT+ israeliana si limitano all’accesso al servizio militare e al riconoscimento di unioni civili contratte all’estero. Sì, perché nello “stato-nazione del popolo ebraico” non si contraggono matrimoni al di fuori del rito religioso (né per le coppie eterosessuali, né per le coppie omosessuali).

Ma attirare l’attenzione su questioni “decorative” della battaglia per i diritti civili serve proprio a distogliere l’attenzione del mondo dal regime di apartheid dello Stato di Israele. Un regime etnico-nazionalista in cui le leggi di immigrazione, cittadinanza e matrimonio sono funzionali al controllo demografico della popolazione.

La narrativa proposta da Israele attraverso Brand Israel è quella di Noi vs Loro: Noi israeliani, democratici, progressisti, gay-friendly; Loro i palestinesi, bigotti, conservatori e omofobi.

E i palestinesi sono veramente vittime di una società omofoba e patriarcale?

La logica coloniale che vuole Israele roccaforte della democrazia in Oriente, così come quella che vuole l’equazione Israele/laicità e Palestina/fondamentalisti, non è solo falsa ma ha l’obiettivo dichiarato di continuare l’occupazione della terra palestinese e la lotta senza quartiere al suo popolo.

La sovraesposizione istituzionalizzata dei comportamenti e delle pratiche sessuali LGBT+ all’interno dello Stato di Israele, va a braccetto con l’invisibilizzazione dei movimenti di liberazione sessuale in Palestina.

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La campagna di boicottaggio dell’Eurovision e del Gay Pride, dal sito web contro il pinkwashing del movimento Palestinese Queer per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (PQBDS). [Credits: Pinkwatching Israel]

L’attivista palestinese Haneen Maikey (fondatrice del gruppo Al Qaws, per la diversità sessuale e di genere nella società palestinese e di PQBDS, Queer Palestinesi per il Boicottaggio, Sanzioni e Disinvestimento) articola la storia dei movimenti queer palestinesi in tre momenti.

Il primo momento coincide con la prima Intifada (1987-1993). In questo periodo non esiste ancora una coscienza queer palestinese e i comportamenti sessuali e sociali considerati devianti vengono sistematicamente esposti ed utilizzati dai servizi segreti israeliani per minare la resistenza del popolo palestinese.

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, inizia la presa di coscienza del movimento queer palestinese. Sotto l’egida di una ONG israeliana, nasce il gruppo Al Qaws, un’associazione apolitica di incontro per le persone LGBT+ di nazionalità palestinese. Intanto i movimenti LGBT+ in Israele iniziano ad ottenere riconoscimento pubblico con l’abrogazione della legge anti-sodomia.

Tra il 2006 e il 2010 il rebranding di Israele va a pieno regime, istituzionalizzando la pratica del pinkwashing. Nello stesso periodo Al Qaws si distacca dalla Jerusalem Open House (2007) e nasce il PQBDS (2009), segnando la definitiva politicizzazione dell’attivismo queer palestinese.

La creazione di un nuovo canone di ‘omonormatività‘, mutuato dalla storia del movimento LGBT+ in Occidente (concentrato sui diritti e sulla politica identitaria) schiaccia i movimenti di liberazione sessuale non occidentali. Questi ultimi si trovano così a dover combattere su due fronti: da una parte, le norme eteronormative e patriarcali della società di appartenenza; dall’altra, quelle etnocentriche e coloniali create dal canone occidentale.

Perché l’attivismo LGBT+ palestinese condanna il pinkwashing e sostiene il boicottaggio dello Stato di Israele

Il compito del movimento queer è di cambiare radicalmente la società, non soltanto di ottenere il riconoscimento dei diritti per alcuni individui. “Il potere oppressivo non fa differenza tra gay ed etero” aggiunge un attivista in un’intervista a Electronic Intifada.

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Durante il World Social Forum: Free Palestine tenutosi a Porto Alegre (Brasile) nel 2011 sono stati presentati due tavoli durante i quali intellettuali e attiviste/i, tra cui Haneen Maikey e Angela Davis, si sono confrontati sui temi di sionismo, pinkwashing e attivismo BDS della comunità queer. [Credits: Pinkwatching Israel]

Gli attivisti di Al Qaws rifiutano la narrativa queer occidentale basata sulla visibilità individuale dell’identità sessuale e di genere. Per loro la contrapposizione tra “pride” e “shame“, fare coming out o non farlo, non è rilevante quanto la produzione di un discorso collettivo di liberazione di genere e sessuale, che investa in primo luogo la comunità di appartenenza.

Secondo Maikey non esiste un’identità omosessuale omogenea che travalica le intersezioni di genere, razza, classe e nazionalità. In quest’ottica la liberazione sessuale e di genere della comunità LGBT+ palestinese è parte integrante della lotta di liberazione anticoloniale del popolo palestinese.

La storia del movimento LGBT+ e queer in questa parte di mondo è indissolubilmente legata alla storia del conflitto israelo-palestinese e al regime di apartheid dello Stato di Israele. È una storia complessa che eventi come l’Eurovision o il Gay Pride non possono che semplificare, tuttavia è importante ricordarla perché il movimento queer continui ad essere un movimento di liberazione a tutti gli effetti.

Claudia Tatangelo

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