Atti censori e post-verità rappresentano la sintesi dell’analisi annuale di Reporter sans frontières (RSF), che cristallizza in uno studio pubblicato mercoledì 26 aprile le zone d’ombra della libertà di stampa del 2017.
Il mondo analizzato da Reporter sans frontières è schiavo di regimi autoritari, guerre e fragili equilibri interni. La tela così dipinta restituisce l’immagine di rapporti tra autorità e cittadini minati da verità bugiarde tese a distorcere la realtà censurando informazioni ritenute un pericolo per le dinamiche politiche, economiche e sociali dello Stato. Lo spazio che la libertà di stampa occupa in questa tela è probabilmente equiparabile a qualche schizzo sfuggito alla tavolozza: irrisorio – RSF specifica che «quasi i due terzi (62,2%) dei Paesi elencati hanno registrato un peggioramento della loro situazione».
Partendo dal fondo della classifica, e dunque dalla “zona nera” che equivale alle ultime ventuno posizioni, è possibile notare come la Corea del Nord con il suo 180esimo posto si classifichi ultima, perdendo una posizione rispetto al 2016. Il peggior risultato del 2017 è quindi riservato al Paese asiatico protagonista delle più recenti tensioni internazionali. Lo studio imputa le problematiche relative alla libertà di stampa all’elevata azione di controllo e censura operata dall’autorità: «il regime totalitario nordcoreano continua a tenere il popolo nell’ignoranza», impedendo a qualsiasi fonte di informazione diversa dalla KCNA, l’agenzia di stampa ufficiale, di esprimersi.
Parimenti condizionata dall’autorità centrale è la libertà di stampa in Cina, Stato classificatosi 176esimo. Reporter sans frontières descrive il Paese come una «prigione» per i giornalisti, e ciò a causa dell’ambizione di Xi Jinping di attuare un «controllo egemonico dell’informazione» che filtri le notizie prima che queste giungano ai cittadini.
Tra i ventuno Paesi della “zona nera” figurano anche Cuba (173esimo), il Vietnam (175esimo) e l’Egitto (162esimo), accomunati tra loro dalla presenza di una “informazione di regime” che non ammette concorrenti indipendenti, i quali sono nella maggior parte dei casi perseguitati e condannati alla prigionia.
I contesti entro cui è più pericoloso svolgere la professione giornalistica restano tuttavia quelli bellici.
La Siria, nell’invariata posizione di 177esima, diviene il Paese «più letale al mondo per i giornalisti» – tra le cause di questo traguardo al negativo vi è la totale instabilità dell’area, soggetta a più influenze, tra le quali figurano il regime di al-Assad e lo Stato Islamico. Egualmente pericolosi sono lo Yemen (166esimo) e la Libia (163esimo).
Eccezione non bellica in termini di pericolosità secondo lo studio di Reporter sans frontières è il Messico, classificatosi 147esimo – “zona rossa” e dunque negativa per la libertà di stampa – e definito lo Stato «più letale dell’America latina» per giornalisti e media in generale, ciò soprattutto a causa della criminalità organizzata.
L’analisi condotta dall’organizzazione non governativa, tuttavia, focalizza l’attenzione anche su un altro tipo di limitazione della libertà di stampa, ossia quella esercitata in maniera meno appariscente dalle democrazie.
A tale riguardo, Reporter sans frontières cita l’abitudine di screditare la stampa mettendo in dubbio i contenuti pubblicati sui mass media e di conseguenza la professionalità dei giornalisti. Questo atteggiamento creerebbe una sorta di antagonismo tra la cittadinanza e i mezzi di informazione, identificati quali veicoli di menzogne anziché di cronaca veritiera.
Altre situazioni problematiche ai fini della libertà di stampa sarebbero l’inasprirsi delle regolamentazioni sul diritto alla privacy, sulla cyber-sicurezza – che implica strumenti di controllo sempre più invasivi – e sulla tutela dell’immagine di uno Stato piuttosto che dei suoi rappresentanti. Lo studio condotto identifica un chiaro limite nel rapporto sempre più stretto, anche nelle democrazie, tra l’autorità o le rappresentanze politiche e l’informazione – la stampa non è libera, non a 360°, e ciò comporta un panorama globale imbruttito dall’impossibilità di rintracciare la trasparenza più propriamente intesa.
Ciò nonostante, come è intuibile, sono le democrazie che occupano le posizioni più alte della classifica: al primo, secondo e terzo posto si classificano rispettivamente la Norvegia, la Svezia e la Finlandia – che perde il primato dell’anno precedente. Guardando all’Italia, malgrado la massiccia presenza di Stati europei nelle prime trenta posizioni, riesce a classificarsi solo 52esima – in “zona arancione” –, guadagnando però venticinque posizioni rispetto al 2016.
Reporter sans frontières identifica tre problematiche legate alla libertà di stampa in Italia: le intimidazioni delle organizzazioni criminali, gli attacchi da parte di alcuni politici ai giornalisti invisi, il disegno di legge sulla diffamazione.
In riferimento all’ultimo punto, RSF scrive:
«I giornalisti subiscono delle pressioni da parte dei politici e optano sempre più spesso per l’autocensura: un nuovo testo di legge fa pesare sugli autori di atti diffamatori contro politici, magistrati o amministratori pubblici pene che vanno da sei a nove anni di carcere».
Il testo di legge cui fa riferimento lo studio è con molte probabilità il DDL “Contrasto intimidazioni amministratori locali”, la cui prima versione citava anche la diffamazione tra i reati per i quali le pene stabilite «sono aumentate da un terzo alla metà se la condotta ha natura ritorsiva ed è commessa ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario […]». I giornalisti erano chiamati in causa in quanto l’art. 595 del codice penale, che disciplina il reato di diffamazione, regolamenta al terzo comma la diffamazione a mezzo stampa.
Tuttavia, probabilmente a seguito della contrarietà espressa nei riguardi di una modifica che avrebbe potuto limitare la libertà di espressione del giornalista e favorire in maniera poco equa una determinata classe di cittadini, l’attuale versione del disegno di legge non annovera più l’articolo 595 c.p. tra quelli interessati dall’aggravante prevista dal DDL.
Con riguardo al secondo problema imputato alla libertà di stampa italiana, Reporter sans frontières afferma che Beppe Grillo, rendendo pubblica «l’identità dei giornalisti sgraditi», collaborerebbe a complicarne la vita professionale.
Il leader del M5S ha risposto a tale accusa con un intervento dal il titolo “È tutta colpa di Beppe Grillo” pubblicato su Il blog delle stelle. Nell’articolo, oltre a suggerire quelli ritenuti i reali problemi della libertà di stampa italiana, Grillo precisa che le proprie azioni intendono contrastare la diffusione di notizie false e non il lavoro dei giornalisti – «Ma cari reporter senza frontiere, denunciare un fatto (l’oggettiva inesistenza di libertà di stampa) e chiedere smentita alle notizie false non può essere considerata un’intimidazione».
Il 27 aprile, RSF ha pubblicato a sua volta un intervento in risposta a quanto affermato da Grillo, dove sottolinea come non ritenga il politico il responsabile della situazione in cui versa la libertà di stampa italiana. Tuttavia, non manca di citare le “giurie popolari” auspicate da Grillo quale strumento «preoccupante per la libertà dell’informazione nel Paese».
Alla luce dell’intera analisi, i 180 Paesi esaminati, come filtrati dalla lente di Reporter sans frontières, appaiono dunque prede di una tensione crescente alla censura, che minaccia di tramutare il mondo della stampa in un palcoscenico sul quale vengono messe in scena nient’altro che farse.
Rosa Ciglio