Dall’inizio di questo conflitto, cioè dal 24 febbraio scorso, quando l’esercito della Russia di Putin ha attaccato l’Ucraina del Presidente Zelensky, l’Occidente e il mondo intero hanno assistito a una vera e propria escalation continua di violenza che ha coinvolto civili, infrastrutture ospedaliere e, ovviamente, gli eserciti di ambo le parti. Con l’assedio di Mariupol, una città che per grandezza e importanza geografica nel Mediterraneo, ricorda l’italiana Genova, l’orrore mediatico ha toccato il suo apice: foto di bambini, video di sirene antiaeree che suonano ad ogni ora del giorno, una città distrutta e in cui non esistono più infrastrutture. Il mondo sta assistendo, attraverso i media e soprattutto i social, a una vera e propria guerra di distruzione totale. Come per le immagini della Jugoslavia, che un po’ tutti sembrano aver dimenticato, anche quella in Ucraina potrebbe essere ribattezzata come una “guerra mediatica” dove l’imprinting con un territorio così lontano è avvenuto innanzitutto attraverso immagini, a cui sono seguite le notizie ribattute dai giornali. In questa guerra però, c’è anche un altro elemento, che sta influenzando in modo determinante la percezione di quanto sta accadendo: la comunicazione.
Putin e Zelensky hanno adottato due registri comunicativi molto diversi. Il primo ha impostato la sua propaganda bellica sul tradizionale ricorso a una narrazione pre-conflitto, atta a giustificare l’uso della forza. Ha infatti riscritto la storia ucraina dal suo personale punto di vista e ha poi preso in prestito una serie di concetti di stampo prettamente populista che in un regime autocratico sono all’ordine del giorno e una narrazione di tipo imperiale che in Russia trova sempre un terreno molto fertile. Il suo omologo ucraino, invece, ha deciso di esporsi maggiormente sui media, adottando un registro meno formale, sfruttando ogni singolo strumento a sua disposizione per catturare le opinioni pubbliche occidentali.
Perché la guerra non si combatte soltanto con le armi, i carri armati, la diplomazia e le sanzioni. Non è soltanto una questione di tattiche e strategie militari. Alla base di un conflitto c’è sempre il modo in cui questo viene narrato. Le parole usate, le politiche del corpo, gli stadi gremiti di persone festanti con le bandiere del proprio Paese e gli audio dei bombardamenti pubblicati sui social non sono un mero esercizio di stile o di narcisismo da parte di Putin o di Zelensky. Rispondono a una strategia di comunicazione ben precisa. Si tratta di due modi diversi di comunicare il conflitto, dettati da due situazioni politiche differenti e da necessità divergenti. Resta da chiedersi quale delle due stia avendo più presa ed efficacia, e soprattutto quali siano i rischi, le opportunità e le conseguenze delle diverse strategie sul conflitto in corso.
“Il metodo Putin”
La strategia comunicativa adottata da Putin è quella classica di chi deve giustificare l’uso della forza. In questi casi prima di sferrare un attacco un uomo politico ha bisogno di creare una narrazione. La retorica e la propaganda devono lavorare affinché ci sia uno stato di mobilitazione permanente, e creano un consenso attorno a un evento che altrimenti sarebbe difficile da spiegare e far digerire all’opinione pubblica.
Innanzitutto Putin ha parlato di un’operazione speciale e non di una guerra. Questo è il primo elemento, quello da cui partire per cominciare a raccontare il modo in cui il Presidente sta presentando il conflitto al suo popolo. Tra le due espressioni esistono notevoli differenze. L’operazione speciale è un intervento di brevissima durata per raggiungere un obiettivo specifico: 96 ore per sbaragliare le forze nemiche, imporsi nelle grandi città, spodestare il governo e sostituirlo con uno più favorevole. Ma Vladimir Putin e il suo stato maggiore hanno fatto male i calcoli e i recenti sviluppi evidenziano tutti gli errori e le difficoltà che l’esercito russo sta incontrando. La strategia mediatica ha dunque dovuto ricalibrarsi di conseguenza.
La propaganda bellica di Putin passa anche attraverso l’uso strumentale del passato. La storia è uno strumento politico che i leader usano per giustificare le proprie teorie e le azioni politiche che ne derivano. Nello specifico, durante il discorso del 24 febbraio scorso, Putin ha riscritto la storia negando l’esistenza dell’Ucraina e addossando a Lenin la responsabilità di aver riconosciuto Kiev all’interno dell’URSS grazie al diritto alla secessione delle repubbliche inscritto nella Costituzione del ’24. Putin si propone come l’unica persona in grado di correggere questo errore.
Il Presidente russo preferisce rivolgersi in prima persona al suo popolo, appaltando la comunicazione fuori dai confini ad apparati propagandistici già presenti in Occidente da diversi anni. Nelle sue apparizioni pubbliche, come quella allo stadio del 18 marzo, il leader del Cremlino ha rispolverato dei sempreverdi della comunicazione populista come ad esempio le invettive contro i traditori, che si sono arricchiti fuori dalla Russia e si sono fatti traviare dai vizi occidentali, contrapponendovi la purezza etica del popolo russo.
La kermesse allo stadio può essere considerato un vero e proprio trionfo dello “stile classico” della comunicazione bellica all’interno di un regime autocratico. Le accuse all’Occidente – “un must” dei regimi populisti orientali – il riferimento all’onore della nazione e la necessità di compiere una missione salvifica per difendere la patria dagli attacchi dei “nazisti” ucraini sono tutti elementi che non invecchiano mai e tornano sempre utili per impostare una narrazione più o meno credibile. Inoltre bisogna ricordare che chi attacca non può mai dare spazio al dubbio: il Presidente deve trasmettere sicurezza, certo di essere nel giusto.
In sostanza la comunicazione adottata da Vladimir Putin per giustificare il conflitto agli occhi del suo popolo si basa su tre pilastri imprescindibili: la contrapposizione e la retorica anti-occidentale, il ricorso all’alternanza tra i momenti in cui il leader si immedesima con i cittadini russi (soprattutto nelle manifestazioni pubbliche) ed altri nei quali ribadisce con fermezza le gerarchie. Infine c’è l’immancabile chiusura a qualsiasi versione alternativa alla narrazione ufficiale. Si tratta di elementi comuni ai regimi autocratici come quello russo, più interessato a tutelare la situazione interna che ad accrescere il consenso e l’approvazione all’estero.
La comunicazione efficace di Zelensky
Dallo scoppio del conflitto, il volto di Volodymyr Zelensky è diventato uno dei più familiari alle opinioni pubbliche europee. Il Presidente ucraino si è rivolto al Congresso americano, al Bundestag tedesco, al Parlamento britannico, all’Assemblea Nazionale francese, alla Knesset israeliana e, infine, al Parlamento italiano. In quest’ultimo ha tenuto un discorso di circa quindici minuti, cercando di sensibilizzare maggiormente i deputati e i senatori italiani circa il conflitto in corso in Ucraina.
In ogni Parlamento, l’ex attore ha proposto riferimenti o descritto situazioni realistiche o ipotetiche che richiamano emozioni molto forti. Ad esempio, negli Stati Uniti ha evocato l’11 settembre, associandolo a quanto sta accadendo a Kiev, in Germania ha citato il muro di Berlino, nel Regno Unito le parole di Winston Churchill. In Israele, il riferimento all’Olocausto, com’era prevedibile – in quanto argomento troppo sentito – non è stato apprezzato.
I riferimenti voluti identificano un tipo di comunicazione molto efficace, la quale ha al centro la personalizzazione del messaggio. Zelensky adegua il proprio discorso al sentimento delle persone nel tentativo di costruire un legame con lo spettatore, proprio come un attore. Il Presidente ucraino sta comunicando “da attore” e non “da politico”, adoperando le strategie di comunicazione figlie della sua esperienza nel settore. Dall’inizio del conflitto, il protagonista di Servitore del Popolo si presenta come un leader marziale in uniforme militare per guidare la lotta e incarnarla. Zelensky è diventato volontariamente il volto della resistenza del popolo ucraino contro l’aggressore russo.
Il contrasto con Vladimir Putin è evidente. L’ex KGB è un leader classico, rigoroso e impassibile anche nell’abbigliamento. Siede in un’enorme stanza (la Sala di Santa Caterina del Cremlino) e si tiene a distanza dai suoi consiglieri e dai ministri in segno di autorità. Zelensky si fa filmare in mezzo ai soldati, ad altezza d’uomo e in contesti che cambiano regolarmente. Comunica direttamente su Twitter con i suoi cittadini, si rivolge alle platee social rispondendo a tono alle voci messe in giro dalla propaganda russa. Al contrario di Putin, il Presidente ucraino è un leader moderno, inserito appieno nelle logiche e nei flussi comunicativi delle piattaforme digitali.
Dalla parte di Zelensky, poi, ci sono anche le circostanze. L’Ucraina è il Paese aggredito, deve difendersi e per questo motivo ha il favore dell’opinione pubblica – che simpatizza ed empatizza quasi sempre per chi subisce. Di conseguenza la copertura mediatica di cui gode il conflitto è gigantesca generando un coinvolgimento emotivo che sorride ovviamente ad una parte sola. Sia chiaro, tali circostanze derivano da una situazione oggettiva e non solo dal caso.
Non c’è dubbio che la comunicazione di Zelensky sia più efficace di quella del suo avversario, ma i rischi ad essa connessi non sono pochi. Dalla banalizzazione del conflitto, causata dalla trasformazione della guerra in corso in un evento social-pop con frasi ad effetto e video in perfetto stile hollywoodiano a quello che in marketing si chiama “punto di pressione“, cioè quando la ripetitività del messaggio satura gli stimoli dei consumatori causando stanchezza, e quindi un allontanamento piuttosto che un avvicinamento. Non bisogna nemmeno sottovalutare il ricorso a un artificioso aumento della tensione internazionale causato da richieste legittime ma per forza di cose impossibili (come la no-fly zone). Insomma, la partita comunicativa tra i due leader in guerra non è ancora chiusa.
Donatello D’Andrea