Coronavirus nel mondo
Fonte: Johns Hopkins University

Quando negli ultimi giorni di dicembre stavamo pensando ai buoni propositi per l’anno nuovo, in Cina, a Wuhan, capoluogo della provincia di Hubei, sono comparsi i primi casi di Coronavirus. L’11 gennaio viene confermata la prima vittima nel Paese e solo due giorni dopo si registra il primo decesso fuori confine, in Thailandia. Questi i primi passi di un’escalation che porteranno l’OMS a dichiarare l’emergenza globale il 30 gennaio. In poche settimane il COVID-19 si diffonde in oltre 150 paesi del mondo, toccando i 5 continenti: è pandemia.

Ad oggi, i contagiati nel mondo hanno superato i 600.000, con circa 30.000 decessi, secondo l’ultimo bollettino della Johns Hopkins University. “La pandemia sta accelerando, ci sono voluti 67 giorni per arrivare ai primi centomila contagi, 11 giorni per duecentomila e 4 giorni per trecentomila”, ha dichiarato il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus. È interessante notare, però, come ad un allarme globale i vari Paesi del mondo rispondano con strategie diverse.

La Cina, dopo oltre due mesi di quarantena, vede la luce in fondo al tunnel: da diversi giorni nello Hubei non si registrano nuovi casi di contagio diretto. Un miglioramento che ha portato alla riapertura di stazioni ferroviarie e aeroporti, sebbene lo spostamento sia consentito solo ai cittadini con “codice verde”, risultati negativi al Coronavirus e senza alcun contatto con possibili infetti da circa due settimane.

L’Europa nella morsa del Coronavirus

Il funzionamento del “Modello Cina” è un segnale confortante per l’Italia, attualmente il Paese più colpito al mondo dal Covid-19 dopo gli Stati Uniti. Decreto dopo decreto – con non pochi conflitti con le autorità regionali – il Premier Conte ha stabilito una serie di misure restrittive crescenti: dopo aver blindato l’intero territorio nazionale, ha decretato la sospensione di tutte le attività eccetto quelle riconosciute come servizi essenziali. In Lombardia, la Regione più colpita, il governatore Fontana ha ulteriormente stretto la morsa, annunciando la chiusura anche di uffici professionali e di cantieri.

A seguire le orme dell’Italia è una preoccupatissima Spagna, dove – così come nel nostro Paese – il numero delle vittime ha superato quello della Cina. Madrid è la Comunità Autonoma che registra più casi di Coronavirus, seguita dalla Catalogna e dai Paesi Baschi. Il Premier Sánchez ha ordinato la quarantena da un paio di settimane, mentre sono state acquistate centinaia di migliaia di test rapidi che saranno distribuiti anche a chi presenta sintomi lievi.

Misure restrittive simili a quelle italiane e spagnole sono state introdotte anche in Francia, Paese sempre più blindato: vietati i mercati all’aperto, ma consentito il jogging, solo una volta al giorno e nel raggio di un chilometro dalla propria abitazione.

Aumentano i contagiati anche in Germania: in Baviera – uno dei Länder con maggiori restrizioni – le autorità hanno decretato che sarà possibile uscire di casa solo per acquisti indispensabili e per vedere la propria famiglia o il proprio partner. Consentite le attività motorie, da soli o al massimo in coppia.

La paura cresce in tutto il mondo e anche chi aveva sottovalutato il problema inizia a fare retromarcia. Pochi giorni fa la strategia inglese è arrivata a un importante giro di boa. Dopo aver resistito ad imporre restrizioni alla popolazione – fino alla settimana scorsa parlava di “immunità di gregge” – il premier britannico Boris Johnson è stato costretto a tornare sui suoi passi, prima di scoprire di essere a sua volta contagiato dal COVID-19. “Da questo momento, devo dare agli inglesi una regola molto semplice: dovete stare a casa” ha affermato pubblicamente il ministro. Misure draconiane anche per l’Inghilterra, che si aggiunge alla lunga lista di Paesi che hanno decretato il confinamento della popolazione nel tentativo di contenere la diffusione del Coronavirus.

Donald Trump vuole riaprire entro Pasqua

L’allarme arriva fino agli Stati Uniti, diventato il primo Paese al mondo per numero di casi e che secondo l’Oms potrebbe diventare il prossimo centro dell’epidemia. A New York, soprannominata ”città lazzaretto” degli USA, la situazione è particolarmente critica: la curva dei contagi si sta impennando a una velocità esponenziale ed è destinata a crescere ancora per molto. Sale a 21 il numero di Stati attualmente in lockdown, sebbene Donald Trump continui a mantenere un profilo ottimista. “Riapriamo l’America al più presto, realisticamente entro Pasqua. Siamo in grado di produrre e di prendere le necessarie precauzioni”, ha dichiarato il Presidente.

Paura per il Coronavirus anche in Africa e in America Latina

Anche in Africa l’allerta è massima: anche se in ritardo, l’epidemia avanza con ritmi diversi nell’intero continente. Il Paese più colpito è il Sudafrica, dove è in vigore l’isolamento per le prossime tre settimane ed è stata da poco annunciata la prima vittima. Il Presidente Cyril Ramaphosa ha annunciato che l’esercito scenderà nelle strade del Paese per garantire il rispetto delle misure di sicurezze emanate. Cresce la preoccupazione in un continente che dispone di risorse meno efficaci rispetto a quelle europee per fronteggiare l’emergenza. L’epidemiologo Mathias Altmann ha dichiarato a France 24 che malgrado la carenza di materiale e di personale sanitario c’è un livello di preparazione non indifferente in Africa, che ha dovuto fare i conti con diverse epidemie e dove alcuni Paesi hanno un enorme quantità di conoscenze in questo terreno, specialmente nella parte occidentale”.

Una situazione simile si verifica in America Latina, dove la criminalità organizzata e le continue lotte per la leadership politica ostacolano la presa di solide decisioni in merito alla salute pubblica. L’arrivo del Coronavirus mette il Sud America di fronte ai propri fantasmi, spingendo le autorità a imporre misure restrittive e a dichiarare lo stato d’emergenza. Prevenzione è la parola d’ordine degli ultimi giorni, in un territorio dove 600 milioni di abitanti sono confinati: tutti i paesi latinoamericani, ad eccezione del Messico, hanno chiuso le frontiere. A registrare il maggior numero in contagi è il Brasile, governato da un Presidente che sembra non aver ancora compreso la gravità dell’emergenza. Jair Bolsonaro ha classificato come “isteriche” le reazioni dei suoi avversari politici di fronte alla pandemia, chiamando il Coronavirus una “piccola influenza”.

La strategia vincente della Corea del Sud

Nel frattempo, un barlume di speranza arriva dall’Oriente: oltre che in Cina, anche in Corea del Sud l’emergenza sta rientrando, con un notevole contenimento di nuovi casi. Il caso Corea, secondo paese in Asia più colpito dopo la Cina, è un esempio virtuoso di lotta al Coronavirus. La strategia adottata, basata su un’esecuzione copiosa di test sulla popolazione e su un sofisticato metodo tecnologico per ricostruire la catena dei contatti dei contagiati, si è rivelata vincente: è un segno che il Coronavirus non è invincibile.

Una cosa è certa: in quella che Conte ha definito “la crisi più difficile dal secondo dopoguerra”, non siamo da soli. Serve una cooperazione solida, una rete di mutuo supporto in tutto il mondo che aiuti a mantenere la lucidità di fronte a una calamità esterna non prevedibile. Una solidarietà che ben traspare dalle parole di Mario Draghi, ex presidente della BCE sul Financial Times: “L’epidemia di Coronavirus è una tragedia dalle proporzioni potenzialmente bibliche. Diversi governi hanno già introdotto misure per incanalare liquidità alle imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più globale ed esaustivo. [..] Le banche devono velocemente prestare fondi alle aziende a costo zero con l’obiettivo di salvare i posti di lavoro. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne soffrono.” Invocazione di una solidarietà che adesso deve necessariamente concretizzarsi.

Matteo Allievi

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