Alberto Arcidiacono, giovane scrittore, è l’autore del libro “L’ultimo volo da Lima: Viaggio in Sudamerica ai tempi della pandemia“, un viaggio realmente avvenuto alla scoperta delle bellezze dell’America Latina attraverso i suoi quartieri, la sua storia, paesaggi ed incontri che segnano la permanenza dei viaggiatori.
Un itinerario avvincente tra Cile, Argentina, Bolivia e Perù. Le terre selvagge del Nord-Ovest argentino, il Salar di Uyuni, le rive del Lago Titicaca. Ma anche un imprevisto scomodo; la pandemia Covid-19 che agita, spaventa e costringe ad una fuga precipitosa. L’autore descriverà per tale motivo tutte le difficoltà che lui e la sua compagna di viaggio sono stati costretti a fronteggiare tra prime restrizioni, frontiere chiuse e la paura verso l’etichetta dell’essere italiano. Perché durante la prima fase della pandemia, l’Italia, dopo la Cina, era il principale Paese contagiato.
Il Sudamerica viene descritto nella sua totalità, soprattutto con le proteste che hanno fatto da sfondo al 2019. Un anno unico e irripetibile.
Il libro si presenta sottoforma di diario di bordo, un dialogo immaginario tra Alberto e suo fratello, che riporta a distanza tutto ciò che accade nelle varie fasi del viaggio e della pandemia. Un racconto che appassiona, diverte, incuriosisce, ricco di foto e mappe geografiche esplicative dell’itinerario di viaggio.
Abbiamo intervistato Alberto per conoscerlo meglio affinché ci raccontasse qualche curiosità in più su se stesso e su questo incredibile viaggio, comprese le difficoltà legate alla pandemia improvvisa. Di seguito la sua intervista;
Ciao Alberto, siamo curiosi di chiederti subito come nasce la tua passione per la scrittura?
«A dire la verità, non saprei ricondurlo ad un momento preciso. In retrospettiva, è come se il desiderio di scrivere fosse sempre stato lì, in attesa di uscire allo scoperto. Ricordo che da ragazzino divoravo un libro dopo l’altro, dai grandi “classici” come l’Odissea e l’Eneide ai romanzi di Jules Verne, Emilio Salgari e R. L. Stevenson, passando per i fumetti di Sergio Bonelli. Spesso, durante i viaggi in macchina, mi mettevo a fantasticare guardando fuori dal finestrino e nella mia testa prendevano vita immagini di mondi lontani, contorni di storie più o meno inventate. Era uno dei miei passatempi preferiti. Poi, a 16 anni, è come se fosse scattato qualcosa. Un amico mi ha introdotto al mondo di Hugo Pratt e alle avventure di Corto Maltese. Ho letto “Una ballata del mare salato” e… beh, lì è stato amore a prima vista. La storia era così bella che mi è venuta voglia di riscriverla a modo mio. E così ho fatto. Dopotutto, aveva ragione la Fallaci quando diceva: “il fatto è che uno scrittore non può fare a meno di scrivere”. Per me è andata esattamente così.»
Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?
«La genesi dell’Ultimo volo da Lima, che potremmo definire come un romanzo-verità, cioè una narrazione basata su fatti realmente accaduti, è da ricercarsi nella trama. Nell’ottobre del 2019, dopo anni di studio e lavoro, io e la mia ragazza decidiamo di lasciare Londra per partire alla volta del Cile, il luogo dove ci siamo conosciuti durante l’università. Il piano è quello di attraversare le Americhe da sud a nord, zaino in spalla, dalla capitale cilena agli Stati Uniti, forse il Canada. Uno di quei viaggi “mollo tutto e vado”, una parentesi di vita da incidere finché si è in tempo, prima che la vita ti inchiodi a un luogo, a una situazione, a una famiglia. Sono partito con l’idea di tenere un diario di viaggio, sì, ma non pensavo che da questo ne sarebbe uscito un libro. Anzi, l’idea di scrivere qualcosa che fosse anche minimamente autobiografico non mi aveva mai sfiorato. Mi ritengo una persona estroversa, socievole, ma sul piano personale sono riservatissimo. Confesso che ho provato un certo imbarazzo a mettere a nudo i miei sentimenti, le mie emozioni. Ciò nonostante, una volta rientrato in Inghilterra, ho avvertito fortissimo dentro di me il desiderio di scrivere. Dopo mesi e mesi di quarantena ho maturato la convinzione che questo libro andasse scritto, che questa storia meritasse di essere raccontata. All’inizio del 2020 il Sudamerica usciva da una stagione esplosiva, una stagione di marce in strada, proteste, manifestazioni, interi Paesi che sembravano sull’orlo di una guerra civile. Il Cile che ho ritrovato dopo 6 anni di assenza, ad esempio, non era più lo stesso. Era irriconoscibile. Ecco, su tutto questo si è abbattuta la pandemia, come un macigno. E io ero lì, mentre tutto questo accadeva. La storia era troppo grande per non essere raccontata.»
È stata una casualità il fatto che tu abbia scelto proprio una letteratura di viaggio, in stile diario di bordo?
«Una casualità. Non ero partito con l’idea di scrivere un libro di viaggio. Quanto allo stile, ho pensato che scrivere in prima persona sottoforma di un dialogo immaginario con Alessandro, il mio “fratellone”, avrebbe permesso al lettore di vivere la storia in diretta, attraverso gli occhi e le azioni del protagonista. Infatti, credo che il vantaggio della scrittura in prima persona sia proprio questo: l’immediatezza del racconto, l’intreccio senza fronzoli, la psiche del protagonista che emerge in modo assoluto. Narrare i fatti in “corso d’opera” o assieme allo svolgimento stesso della storia rende tutto estremamente più naturale e reale.»
Oltre alla tematica del viaggio realmente intrapreso, possiamo considerare il tuo libro un libro autobiografico a 360° oppure ci sono delle caratteristiche del personaggio che descrivi che non ti appartengono?
«Il libro è autobiografico e ho cercato di riportare i personaggi così come sono, cioè delle persone reali, con i loro pregi, i loro difetti, le loro opinioni, che possono piacere o non piacere. Certamente, ho arricchito il testo a posteriori con informazioni che sul momento non mi erano disponibili. Quanto a me stesso, in certi passaggi ho volutamente omesso le mie opinioni personali per fare in modo che il lettore potesse riflettere su certi argomenti e trarre le proprie conclusioni. Così nel libro affronto temi sociali e di politica, economia, ma senza avere l’ambizione o la presunzione di dare insegnamenti morali. Parlo di turismo di massa, di tecnologia, di social e della società di consumo, ma sempre ponendo dei dubbi, delle domande. Do in “prestito” al lettore i miei occhi per vedere, il mio naso per annusare.»
Quanto è stato difficile per te vivere la condizione di precarietà e dubbiosità del primo periodo di pandemia Covid-19?
«Sul piano personale è stato difficile, anche se mi ritengo una persona fortunata. Amici e famigliari che hanno contratto il Covid sono guariti, ho sempre avuto un tetto sopra la testa e di che mangiare. Dal punto di vista emotivo, però, mentirei se dicessi che il peggio l’ho passato in Perù e durante i giorni dell’evacuazione. No, il peggio sono stati i cento-e-passa giorni di quarantena in cui ho dovuto convivere con il rimpianto di aver lasciato il mio lavoro, la mia vecchia vita fatta di certezze e abitudini. Ci sono state volte in cui mi sono pentito delle scelte che ho fatto e delle decisioni che ho preso. Ci sono state volte in cui mi sono lacerato di dubbi, giorni in cui non ho provato altro che rabbia, ansia e frustrazione. Il sollievo di aver fatto ritorno in un luogo sicuro è stato presto soppiantato dal senso di paura e d’incertezza per il futuro. In questo senso, posso dire che scrivere il libro mi ha davvero aiutato. Mi ha tirato fuori da una situazione negativa e ha restituito un senso alle mie giornate.»
Ci piacerebbe sapere qual è il ricordo più caro che conservi di questo viaggio e perché. Se c’è una città, un paese, una zona in particolare che ti ha colpito.
«Domanda da un milione di dollari. Ho diversi ricordi che mi sono cari, dall’asado improvvisato a casa di Rodolfo a quel tramonto sul Salar di Uyuni, uno spettacolo che non pensi possa esistere finché non lo vedi. Se però dovessi sceglierne uno solo, forse… forse sceglierei quel primo giorno in Bolivia, quel pazzo 11 marzo del 2020 trascorso sulla strada tra Villazón, Tupiza e Uyuni.
Allora la Bolivia sembrava un territorio relativamente sicuro da attraversare, e invece, con solo due casi di Covid-19 registrati in tutto il Paese, la popolazione sembrava vivere in uno stato di isteria collettiva. Tra dogane, treni cancellati, scioperi, blocchi stradali e quant’altro, può sembrare paradossale dire che ne conservo un bel ricordo. Col senno di poi, però, posso dire che è stata una giornata intensa ma stimolante, piena di colori e di vita. Ricordo con piacere il trambusto, le ore trascorse per strada a bere mate e a fare amicizia con turisti, automobilisti e locali, un insieme eterogeneo di persone che condivideva il disagio della strada bloccata. Quella cena trascorsa sugli sgabelli di plastica di fronte ai baracchini di cibo che come tante lucciole erano comparsi al calar del sole, in una sorta di caos organizzato. Dopo due anni di pandemia mi manca quel senso di movimento, convivialità e condivisione, un mondo fatto di persone e non di schermi.»
Domanda difficile: ci saranno altri viaggi e nuove pubblicazioni a tal proposito?
«Sì e sì. Se c’è una cosa che ho capito di me stesso è che la dimensione del viaggio mi appartiene. È in momenti come questi che assaporo il gusto della vita e la parte migliore di me stesso. Viaggiare dove, però, non ve lo so dire. Ci sono così tanti luoghi che vorrei esplorare: il Centro America, l’Africa, la Cina, la Russia, il Giappone, i Paesi dell’Asia centrale… e poi c’è l’India. Ci sono stato una volta ma vorrei ritornarci. Per quanto riguarda nuove pubblicazioni, invece, ho tante idee per la testa, alcune delle quali sono molto audaci. Ma serve tempo, tempo che in questo momento mi manca. Anche se c’è quel mio primo libro, quello ispirato alla Ballata del mare salato, che ho scritto e mai pubblicato. Finora è rimasto lì, nel cassetto, ma un domani… chissà.»
Cosa consiglieresti a coloro che vorrebbero intraprendere un viaggio in America Latina ma che sono spaventati dal contesto sociale, politico di alcuni Paesi? O che si sentono “poco sicuri” nell’esplorare questi territori in completa autonomia.
«Credo che la paura sia connaturata alla condizione umana. Anch’io avevo paura la prima volta che sono arrivato in Cile. Per non parlare della prima volta che ho fatto l’autostop, o che sono partito per un viaggio senza sapere dove avrei dormito la sera. Poi scopri che i meandri della fantasia, spesso, sono luoghi più spaventosi della realtà. Certo, quando si visita un nuovo Paese consiglio di documentarsi in modo adeguato, e quando si è in loco bisogna sapersi porre in maniera rispettosa, dialogare con i locali, chiedere informazioni. In America Latina la gente è molto ospitale: troverete sempre qualcuno pronto ad aiutarvi. Dopodiché, occorre anche saper fare delle distinzioni: quando si parla di America Latina si parla di un insieme molto eterogeneo di Paesi, che va dal Brasile al Venezuela passando per Cuba e la Costarica. È chiaro che ogni Paese ha la sua storia e non si può generalizzare. Nella mia esperienza personale l’unico vero rischio che si corre, in America Latina, è quello di innamorarsene e di volerci restare.»
Sabrina Mautone