Da alcuni anni in Italia la frontiera dell’audio si è allargata in direzione di nuovi prodotti tecnologici: i podcast. Questo format, che approda in Italia nel novembre 2018 tramite la piattaforma Audible, si afferma quando la Apple lancia il primo iPod: l’origine è nota fin dal termine “podcast”, che viene da “pod” (in riferimento all’mp3 dell’azienda di Cupertino) e “cast”, trasmettere.
A novembre è uscito per l’editore Meltemi un libro che si interroga sul fenomeno podcast: con “Podcasting. La radio di contenuto ritorna sul web” il giornalista Luigi Lupo ripercorre la storia del podcast, che si sviluppa in seno al mondo radiofonico per approdare al giornalismo digitale. Il “racconto sonoro della realtà” non è nato per far da sottofondo alle nostre attività quotidiane, ma come uno strumento informativo e di intrattenimento dall’enorme potenziale, su cui sempre più studiosi e critici stanno puntando l’attenzione. Quello di Luigi Lupo è tra i primi studi su una strada ancora poco battuta dall’Italia, che guarda sempre agli esempi internazionali.
La radio di contenuto sta davvero tornando sul web? Luigi Lupo affronta la questione da più punti di vista: il podcast deriva sì dal mondo della radio, ma se ne discosta per approdare a una originale ibridazione tra quest’ultima e la rete. Indubbiamente cavalca l’onda della rivoluzione digitale: la personalizzazione della fruizione, possibile grazie all’ascolto on-demand, il connubio con il giornalismo (specialmente di inchiesta), la portabilità, sono aspetti che inducono a pensare a quella del podcast come a una vera e propria rivoluzione. Secondo i più recenti dati questo settore in Italia è in continua crescita. Tuttavia, i passi da compiere per concorrere con altri Paesi e, perché no, proporre contenuti tutti italiani, sono molti.
Per delineare al meglio la situazione del podcasting in Italia, abbiamo intervistato l’autore del libro.
Nelle classifiche europee sulla lettura l’Italia si trova sempre in fondo, nonostante periodiche riprese. Quanto incide questo fattore nel settore del podcasting?
«Il podcast è un contenuto parlato che nasce però dalla scrittura, per cui tra le due modalità c’è, credo, una correlazione. In Italia gli audiolibri attirano una fetta di pubblico già appassionata alla lettura e anche molti non lettori, e vengono diffusi grazie a piattaforme come Audible. L’ascolto di contenuti che nascono scritti richiede una soglia di attenzione maggiore di quella necessaria alla radio di flusso, soprattutto se si intrecciano al giornalismo.»
La cultura digitale lavora su connessioni orizzontali di molti punti diversi: il fattore del multitasking, stimolato anche nell’ascolto di podcast, non rischia di disperdere l’attenzione nei confronti del contenuto audio?
«L’audio ha una capacità di penetrazione differente dal visivo. È difficile che altre attività si sovrappongano all’ascolto di un podcast e ne compromettano la continuità. Il podcast, nella cultura digitale in cui siamo immersi, può recuperare l’attenzione e con essa una dimensione intima che si instaura tra l’ascoltatore e il contenuto, che si rivolge all’utente con un linguaggio colloquiale e mantiene comunque una certa qualità della scrittura.»
Quanto influisce sugli ascoltatori il legame con la radio, medium sorpassato da nuove frontiere della comunicazione? E perché in Italia il podcast ha avuto successo solo recentemente?
«Possiamo spiegare questo legame assumendo ad esempio il rapporto tra la televisione e Netflix: la radio sarà la vecchia televisione, il podcast, invece, il “Netflix dell’audio”. Il consumo asincrono appare come fatto su misura per l’ascoltatore, che si costruisce un personalissimo palinsesto lontano dal “qui ed ora” proprio della radio di flusso. Il podcast copre tutta quella parte di radio che sembra essere scomparsa, avvicinandosi così alla fiction, all’audiodocumentario. Al tempo stesso, però, il contenuto scritto, montato e diffuso sulle più svariate piattaforme non può sostituire del tutto quel fascino che ancora la radio conserva: il vecchio talk perderebbe la propria peculiarità se riascoltato in formato podcast.
In Italia, poi, scontiamo sempre un ritardo culturale rispetto a tanti fenomeni. Gli Stati Uniti hanno una cultura della radio più potente di noi – nonostante l’Italia possa vantare una storia radiofonica importante. Basti pensare che durante le elezioni le tribune radiofoniche sono ascoltatissime, e che i maggiori lavori di podcasting sono nati da producer radiofonici. La cultura digitale, inoltre, risente dei passi da gigante dei colossi del web che si muovono verso una produzione professionale di contenuti.»
Come evidenziato nel libro, anche il giornalismo ha sperimentato dei percorsi creativi a partire dal podcast. Si può azzardare una previsione sul futuro di questa tecnologia nel mondo del giornalismo digitale?
«Il punto di partenza è sempre il caso statunitense che ha aperto la strada del podcast anche in direzioni del tutto nuove – il prestigioso premio Pulitzer quest’anno verrà assegnato a un podcast. Oggi in Italia tutte le maggiori testate giornalistiche hanno una sezione podcast all’attivo. Aziende e brand hanno fiutato la possibilità di divulgare le proprie campagne anche attraverso podcast; tuttavia esisterà sempre una sorta di “forbice” tra il giornalismo più generalista, quello che prende accordi con i pubblicitari, e quello indipendente. La maggior piattaforma in quest’ambito è Spreaker, che garantisce purtroppo dei ritorni economici ancora troppo bassi. Il giornalismo si è aperto a questo percorso per ampliare il mondo dell’informazione, e all’interno di un mondo digitale è importante costruire una comunità e cercare di arrivare al lettore attraverso una identità ben salda. La mia idea è che i contenuti, se di qualità, abbiano tutto il diritto di essere sostenuti: la produzione di un podcast comporta spesso dei rischi, si pensi al genere dell’inchiesta. Si tratta di un lavoro a tutti gli effetti.»
Arianna Saggio