L’ultimo appuntamento settembrino di ‘Lettere in soffitta’ è un omaggio a colui che in tempi antichi — quelli romani — d’amore si fece maestro: stiamo parlando di Publio Ovidio Nasone, più semplicemente conosciuto come Ovidio.
Vissuto sotto l’imperatore Augusto, in un’epoca in cui la poesia ‘non fu meccanico riflesso degli orientamenti del regime’, né tantomeno rifiuto totale dell’impegno politico, Ovidio vestì i panni dell’anticonformista, incapace di porsi nel mezzo, seguace di un’irresistibile vocazione per la quale, non sempre, si ritrovò a vivere in circostanze felici.
Poeta elegiaco, al pari degli amici Tibullo e Properzio, egli fu tuttavia il cantore di un amore diverso, un gioco con regole precise da osservare, nel quale si può essere pure vincenti e non per forza consapevoli sottomessi ai capricci di un’avversaria tiranna ed infedele. Emblema del nuovo modo, tutto ovidiano, d’intendere il sentimento amoroso è senza dubbio l’Ars amatoria, poema erotico-didascalico in tre libri, scritto tra l’1 a.C e l’1 d.C, divenuto causa scatenante, insieme ad un error di cui poco sappiamo, della relegazione dell’autore nella lontanissima Tomi: con tale poema, infatti, Ovidio figura agli occhi del regime come un obsceni doctor adulterii, avendo svelato ai lettori i segreti del tradimento e i mezzi per attuarlo in maniera perfetta.
Siquis in hoc artem populo non novit amandi, |hoc legat et lecto carmine doctus amet. |Arte citae veloque rates remoque moventur,| arte leves currus: arte regendus Amor.
Sono questi i versi d’apertura dell’Ars, versi che suonano come un invito a farsi esperti d’amore per poter poi intraprendere nuove avventure. Un inizio significativo, in cui è possibile captare l’essenza della concezione amorosa del nostro praeceptor: siamo dinnanzi all’arte della ricerca, nel mondo di coloro che si preparano all’appuntamento con Cupido, perché desiderosi d’amare. Tutto sta nella volontà e non più nel destino; non è più tempo di soffrire per una donna, per quella che si incontra, è tempo di lasciarsi istruire, a mo’ di soldato, per conquistare la donna che si è scelta. E l’atto della scelta è proprio l’immediata conseguenza di un’accurata ricerca.
Le occasioni più propizie per la caccia amorosa vengono offerte dalla corte augustea stessa, dalle sue feste e dalle sue cerimonie. Pertanto, l’opera ovidiana è fortemente legata a quell’ambiente in cui fu condannata e in cui non mancavano di certo, accanto ai consueti trionfi bellici, passioni ed intrighi. Indissolubilmente intrecciate, sfera galante e sfera militare convivono e s’identificano l’una nell’altra, essendo lo spazio d’amore lo stesso della vita civile. Si consiglia allora di frequentare i teatri, il circo, i portici di Roma, insomma i luoghi più frequentati della città per adescare le proprie prede e sfoderare le armi di affascinante corteggiatore. È il mito stesso, nel patrimonio delle leggende nazionali, a motivare quanto accade nella vita mondana, i suoi incontri e le sue conquiste: basti pensare al ratto delle Sabine, raccontato da Ovidio ai versi 101-131 dell’Ars.
Primus sollicitos fecisti, Romule, ludos,| cum iuvit viduos rapta Sabina viros. […]|Respiciunt oculisque notant sibi quisque puellam| quam velit, et tacito pectore multa movent;|dumque rudem praebente modum tibicine Tusco|ludius aequatam ter pede pulsat humum,|in medio plausu (plausus tunc arte carebant)|rex populo praedae signa petenda dedit.
Non mancano poi i precetti inerenti all’abbigliamento, alla cura del corpo, che ci riportano con la mente al concetto di decorum e a Cicerone, colui che fece di questo stesso concetto uno dei punti cardine del De officiis. E nell’ultimo libro, l’unico dedicato alle donne, l’importanza di conoscere se stessi per meglio apparire agli altri, emerge con ancor più efficacia: Nota sibi sint quaeque; modos a corpore certos| sumite; non omnis una figura decet. Nell’indicare le posture da assumere, a seconda delle proprie forme, Ovidio sfoggia tutta la sua malizia, leggera e mai eccessiva, accompagnata da una brillante vena umoristica, da complimenti e punzecchiature che conducono le lettrici dell’Ars a pensare che l’autore conosca proprio bene quello che loro desiderano.
Ma l’Arte di amare, oltre ad essere un capolavoro di malizia, è anche un capolavoro di creatività espressiva: se da un punto di vista contenutistico, Ovidio potè trarre ispirazione dai poeti drammatici ed elegiaci, stilisticamente e tecnicamente si pose su un piano di assoluta originalità — pur mantenendosi sulla linea alessandrina della poesia come lusus — portando a compimento quel processo di fioritura letteraria che Augusto innescò fin dall’inizio del suo principato.
Dunque, un Eros che si fa gioco, in tutto e per tutto, che diventa precettistica raffinata e dilettevole grazie a un maestro forgiato dall’esperienza: usus opes movet hoc; vati parete perito.
Anna Gilda Scafaro