I social network hanno riscosso un grande successo grazie al loro fruttuoso potenziale: poter connettere tutti coloro che hanno un accesso a internet col fine di comunicare e condividere esperienze gratuitamente, ovunque ci si trovi. Abbiamo tra le mani un’immensa ricchezza che fruisce dal medium dello schermo e utilizza come strumenti la parola e l’immagine, ma come al solito i lati positivi di un qualsiasi fenomeno nascondono sempre l’altra faccia della medaglia, che qui si incarna nell’emergenza hate speech (linguaggio/incitamento all’odio).
Zygmunt Bauman ha elaborato il concetto di società liquida analizzando come, con la crisi del concetto di comunità, un individualismo sfrenato si sia affacciato in modo sempre più opprimente fino a distruggere l’idea di gruppo e ad acuire le differenze con l’altro. Identificare sé stessi come all’apice di una piramide porta a circoscrivere tutto il contorno in una posizione secondaria, generando una profonda disillusione nei confronti della realtà in cui si è immersi. La modernità è quindi piuttosto fragile, resa tramite una società fatta di individui solitari (una serie di punti non compatti, quindi un liquido) che pretendono di apparire in quanto migliori “dell’altro”, più belli, più sapienti e sicuramente più interessanti. Questa gara a chi ha la vita più instagrammabile delinea perfettamente come l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore e il consumismo vengano identificati come gli unici punti fermi in una società in cui nessuno si fida dell’altro.
L’hate speech è una delle conseguenze più velenose: se io ho la verità in tasca perché affidarmi agli altri? Perché permettere a qualcun altro di darmi un consiglio o dirmi che cosa fare? Da qui ha inizio la pretesa di “dire la propria” dei tuttologi online, che non sono capaci di ridimensionare sé stessi e di apprendere umilmente da chi potrebbe saperne di più, anche (o soprattutto) se si tratta di uno specialista. L’acuirsi di questo inconscio autoisolamento provoca un allontanamento tale dalla realtà da sovrastimare le proprie capacità intuitive e di scadere in assurdi complottismi. Nel momento del confronto con l’altro, di fronte a notizie o a commenti che non rientrano nella propria zona di comfort, la reazione è proprio quella dell’hate speech: ci si mette sulla difensiva, con violenza e bestialità, in caps lock e con le offese più disumane, per l’incapacità di argomentazione e per denigrare il proprio interlocutore col fine di apparirgli superiore.
Tra le cause scatenanti del fenomeno c’è probabilmente il senso fallace di deresponsabilizzazione che uno schermo può dare. Il fatto di non comunicare vis-à-vis o di avere la possibilità di dileguarsi, e quindi di non aver mai più un contatto con le persone (spesso estranee) a cui si indirizzano gli hate speech, non sono dei deterrenti per non prestare attenzione alle nostre parole. La violenza verbale va combattuta sempre in quanto distruttiva e denigratoria, grave fonte di malessere e fin troppo spesso veicolo della nascita o dell’accentuazione di problematiche psicologiche. Un rapido giro sui social rende evidente il fatto che i ragazzini più piccoli e gli adulti che rientrano nella cosiddetta fascia dei boomer (solitamente anche buoni cristiani con una media istruzione e vestiti di ipocrisia) siano coloro che usufruiscono maggiormente dell’hate speech, seppur in modo diverso. I ragazzini che ci cadono sono i classici bulli che per far gruppo mirano una vittima rendendole la vita impossibile. Se per questa categoria si può però parlare principalmente di cyberbullismo (fenomeno che tocca tematiche più ampie e complesse) sono gli adulti che hanno subito passivamente la digitalizzazione della cultura, della comunicazione e dell’informazione. In entrambi i casi è evidente l’urgenza di una maggior sensibilizzazione sia nelle scuole che tramite i mass media riguardo il medium “social network”, ormai troppo spesso trasformato in un contenitore in cui buttare la propria spazzatura e tutta la frustrazione accumulata nel corso della giornata.
Questi fattori si integrano troppo spesso a una serie di ideologie malsane e conservatrici che inducono coloro che usufruiscono dell’hate speech a denigrare e ad assalire tutto ciò che è “diverso”. L’ultima disgustosa circostanza è sopraggiunta con l’episodio di Silvia Romano, esempio sfruttabile per evidenziare una serie di problematiche sociali che emergono in tali contesti.
Il maschilismo: per cui non è accettabile che una giovane ragazza abbia deciso di realizzare se stessa allontanandosi dalle consuete maglie sociali. Il machismo: da cui sono nate tutte le orribili, nauseanti e vergognose battute sessiste (anche maschiliste, di certo) per cui una ragazza, in mezzo a un gruppo di sequestratori neri non poteva far altro che divertirsi. Beh, aveva a disposizione merce rara che l’uomo medio bianco non possiede, beata lei che è stata soddisfatta e povero uomo bianco che non regge il paragone. L’islamofobia: Silvia è tornata convertita. Una ragazza di 23 anni, da sola, prigioniera, che ha avuto rari contatti con uomini che non lasciavano mai neanche farsi vedere in volto, letto un libro sacro si è aggrappata a quelle parole e ha lì trovato la sua salvezza mentale e intellettuale. Non sarà un caso se Primo Levi ad Auschwitz cercava disperatamente di ricordare i versi della Divina Commedia, no? Sembra di no. Per l’italiano medio fruitore dell’hate speech Silvia è semplicemente diventata una terrorista. Fake news: Silvia ha percorso il tragitto “aereo-premier Conte” e da lì i leoni da tastiera ci hanno riferito che “è incinta / è tornata sposata / col Rolex al polso / ci è costata 4 milioni” (commentando poi con un sorriso e un ‘non sono stata aggredita’, con una superficialità che non conosce il significato di trauma per ciò che ha vissuto, trauma per il ritorno e il sollievo di aver ritrovato la famiglia).
Contro il fenomeno dell’hate speech servono provvedimenti seri e codificati dalla legge, perché il messaggio è uno ed è urgente: il fatto che la comunicazione virtuale non sia ad praesentia non implica che dobbiamo dimenticare i filtri sociali, la gentilezza, l’empatia e l’educazione. I social sono un’enorme piazza, dovremmo curarla e prenderci cura di chi ci sta vicino e mai aggredire l’altro solo perché è lontano da noi.
Alessia Sicuro