Amnesty International Italia pubblica i risultati del progetto “Conta fino 10”, meglio conosciuto come barometro del discorso d’odio: in 23 giorni di campagna elettorale sono più di 780 le segnalazioni di istigazione all’odio contenute all’interno delle dichiarazioni (social e non) dei politici in corsa per le elezioni.

Più di un messaggio offensivo, razzista e discriminatorio all’ora moltiplicato poi dalla Rete. Complessivamente, secondo quanto riscontrato dal barometro del discorso d’odio di Amnesty, il 51% delle dichiarazioni è da attribuire a candidati della Lega, il 27% a Fratelli d’Italia, il 13% a Forza Italia, il 4% a CasaPound, il 3% a L’Italia agli Italiani e il 2% al Movimento 5 Stelle.

Dati alla mano, Amnesty International ha riscontrato che il tema più abusato all’interno del discorso d’odio aveva per soggetto migranti e immigrati (bersagliati nel 91% delle dichiarazioni), seguiti poi dalla comunità islamica, LGBTQIA, rom e dalle donne.

Il discorso d’odio non incita quasi mai direttamente alla violenza e alla discriminazione ma, secondo quanto emerso, attraverso l’utilizzo e la condivisione (consapevole) di fake news tende a legittimarla, creando stati emergenziali immaginari e pericolosi nemici da perseguitare.

Nel caso specifico dell’utilizzo strumentale della “questione migranti”, i fatti violenti di Macerata hanno avuto un ruolo non indifferente durante i vari proclami e comizi elettorali, tanto che gli appellativi disumanizzanti utilizzati per dibatterne andavano dal neoliberale soft “risorse” al becero e squadrista “bestie” e “vermi”.

Questi dati risultano quantomeno allarmanti, ma come destreggiarsi e interpretarli al meglio? I risultati emersi dal barometro del discorso d’odio promosso da Amnesty suggeriscono una presa di coscienza da parte della classe dirigente di quelle che non possono più essere bollate come parole improprie, ma devono essere riconosciute come discorso d’odio veicolante intolleranza, disinformazione e razzismo.

Il direttore generale di Amnesty International Italia, Gianni Rufini, ci ha concesso un’intervista proprio per approfondire i motivi che hanno mosso questa campagna e per parlarci delle aspettative che vi sono riposte.

Rispetto ai risultati dell’indagine sul discorso d’odio in Italia, quali sono le conclusioni tratte da Amnesty?

Con l’iniziativa “Conta fino a 10”, abbiamo deciso di affrontare la campagna elettorale in modo totalmente inedito rispetto agli anni precedenti: se prima la nostra attenzione era rivolta tutta alla promozione, o per lo meno al rispetto, dei diritti umani fondamentali, oggi possiamo dire sia più capillare e rivolta ad evitare che la polarizzazione implicita alla retorica del “noi contro loro” trapassi all’interno del discorso politico assecondando se non veicolando sempre e solo maggior odio verso qualsiasi alterità. Per questo motivo abbiamo sfruttato la grande capacità di Amnesty di fare ricerca e di mobilitare “grandi numeri”; più di 600 volontari hanno monitorato attentamente dichiarazioni 1400 politici, di cui 170 hanno utilizzato sistematicamente discorsi d’odio, in alcuni casi incitando a razzismo e violenza.

All’estero il discorso d’odio conosciuto come hate speech è già da anni ambito di studio e riflessione, accademica e non. Perché a suo parere in Italia non è avvenuto lo stesso?

In Italia in realtà il discorso d’odio rappresenta un tema abbastanza “nuovo”, anche se già altre realtà si sono occupate di monitorare maggiormente quest’ambito, si pensi ad Art 21 o alla commissione Jo Cox. Amnesty ha voluto dare il suo contributo allargando in modo massiccio il numero di dati presi in analisi e avvalendosi della collaborazione dell’Università degli studi di Verona.

Lo scopo di questa campagna di monitoramento, oltre che di sensibilizzazione sociale sul tema, mira anche ad un riconoscimento legislativo-giuridico del discorso d’odio?

Sicuramente noi non ci fermeremo qui, andremo avanti richiedendo anche dispositivi politici specifici e adeguati volti a riconoscere la gravità del discorso d’odio. Lo scopo primario rimane comunque quello di sensibilizzare i politici a non utilizzare più tali termini. Solo abbattendo i muri di discriminazione e intolleranza sarà di nuovo possibile un dialogo sereno e reale sui problemi che affliggono il nostro presente. Vanno ricreati degli spazi democratici per un confronto serio e reale.

Limitare il discorso d’odio non rischia di limitare la libertà d’espressione?

Il confine tra discorso d’odio e libertà d’espressione è molto labile. Bisogna porre assoluta attenzione poiché il tema è controverso. Amnesty si è sempre battuta per la libertà d’espressione, motivo per cui richiedere una regolazione del discorso d’odio non vuole essere la violazione del diritto di libera espressione ma al contrario una sua tutela. Il discorso d’odio è un salto di qualità negativo della libertà d’espressione poiché tende a mettere un interlocutore contro l’altro, se non a escludere a priori il dialogo. È necessario creare degli spazi dove la libera espressione sia possibile per tutti, dove la temperatura del barometro dell’odio si possa abbassare a favore di uno scambio di opinioni e soprattutto di dati reali, e non di fake news appositamente create per discriminare una qualsiasi “minoranza”. I mezzi giuridici per impedire la diffusione di queste notizie false esistono, ma troppo spesso le autorità di competenza non li utilizzano.

Molti dei termini utilizzati nel discorso d’odio vertono sull’esaltazione della differenza a favore della costruzione di identità sempre più marcate. È possibile uscire dal binarismo escludente imposto dal concetto di identità?

Sì, è possibile e necessario. Appellarsi all’identità basata su esclusione e messa a valore (ndr negativa) delle differenze non fa che frazionare quest’ultima, creando sempre più divisioni all’interno del contesto sociale. Piccole o grandi differenze non dovrebbero distinguere l’accesso degli uomini ai diritti fondamentali, che in quanto tali dovrebbero essere garantiti a tutti a prescindere dalle differenze di sesso, orientamento sessuale, religione, luogo di provenienza etc.

Insomma, a detta dello stesso Rufini è tempo di prendere posizione rispetto al discorso d’odio e pretendere da coloro che dovrebbero rappresentarci un minimo di responsabilità coerente al ruolo istituzionale ricoperto, a tutela dei principi sanciti dalla Costituzione e alla base di qualsiasi governo democratico.

Intervista a cura di Sara Bortolati

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