
La crociata politica e ideologica contro gli animali selvatici portata avanti da alcune importanti associazioni di categoria, dal Governo Meloni e dalle attività antropologiche in natura, sembra trovare sempre più riscontro anche nella popolazione civile, soprattutto negli ambienti montani. I troppi anni di mala gestione della fauna selvatica sommati a reintroduzioni massicce a scopi venatori e a una del tutto assente educazione ambientale, ha portato gli abitanti delle aree montuose italiane all’esasperazione. Principali “vittime” della presenza di lupi, cinghiali, cervi e altri ungulati risultano essere le aziende agricole le quali, secondo la principale confederazione nazionale che rappresenta le imprese agricole italiane, hanno subito danni per oltre 200 milioni di euro in un solo anno. Cifre che contengono la disperazione di cittadini che non sanno più come difendere le proprie produzioni e che, per tale motivo, confidano in soluzioni rapide e molto spesso inefficaci.
L’uomo paga le conseguenze delle scelte scellerate dell’uomo. Tendiamo, per una ragione o per l’altra, a preferire sempre la soluzione più facile, seppur statisticamente improduttiva. Ciò è dimostrato dagli ampi consensi ricevuti dai generali di questa guerra. Il decreto del 13 giugno 2023 del ministero dell’Ambiente a guida Pichetto Fratin, ha reso possibile l’abbattimento massiccio di varie specie di animali selvatici stanziali e migratori. Eppure secondo numerosi articoli scientifici, la caccia non è la soluzione. Lo dimostra ciò che sta avvenendo con i cinghiali. Secondo la LAV, «Le evidenze dimostrano la totale inefficacia del metodo venatorio, capace ogni anno di causare una strage di animali senza risolvere i problemi sollevati dagli agricoltori, ancor di più tenendo conto che dal 2005 i cinghiali già possono essere cacciati tutto l’anno in modalità caccia di selezione. ISPRA è molto chiaro, i danni all’agricoltura attribuiti ai cinghiali sono in continua crescita, nonostante il continuo aumento del numero di animali uccisi». Scienza contro ideologia o, per meglio dire, natura contro capitalismo.
L’impari scontro tra uomo e natura è quindi totale. La convivenza tra esseri umani e animali selvatici tanto anelata dagli ambientalisti e da chi ha ancora un minimo di senno è diventata col passare del tempo un’ipotesi assurda. Non è possibile trovare alcuna valida soluzione ad alcun tipo di problema quando la rabbia offusca la mente. Ed è proprio la rabbia irrazionale, spesso esacerbata e cavalcata dalla politica (per fini elettorali) e da alcune associazioni di categoria (per scopi economici) a scatenare questo tipo di guerre. Ostilità che negli ultimi tempi crescono anche nei confronti di altri animali selvatici come i lupi, nuovi martiri di un’economia agricola sempre più vittima di se stessa.
Attenti al lupo!
Il report “LA DISTRIBUZIONE DEL LUPO NELLE REGIONI ALPINE 2020 – 2024” afferma che la presenza di lupi in Italia è in costante crescita. Un dato positivo per la biodiversità, ma non per parte della popolazione italiana. Se i cinghiali sembrano essere diventati il nemico pubblico numero uno degli agricoltori, la presenza di lupi nelle aree montane italiane è di certo uno dei principali problemi per gli allevatori. «Il declassamento dello status di protezione del lupo da rigorosa a semplice risponde alle richieste delle autorità locali, degli allevatori e degli agricoltori di maggiore flessibilità per gestire attivamente le concentrazioni critiche di lupi». Ancora una volta la direzione intrapresa dalla principale confederazione nazionale che rappresenta le imprese agricole italiane, è chiarissima. Occorre agire e serve farlo subito.
Anche questa volta i dati elaborati e presentati dalla sopracitata associazione sembrerebbero giustificare le paure di chi in e di montagna ci vive. Dal 2014 al 2024 i lupi avrebbero causato la chiusura di 800 stalle e la morte di 65 mila tra pecore, capre e agnelli. Secondo l’ultimo report dell’ISPRA, pubblicato nel 2022 « In totale, in riferimento al periodo 2015-2019, sono stati raccolti dati relativi a 17.989 eventi di predazione accertati, per una media di circa 3.597 eventi ogni anno. […] A seguito dei 17.989 eventi di predazione totali, sono stati registrati come predati un totale di 43.714 capi di bestiame. […] Le somme concesse a titolo di indennizzo durante il periodo 2015-2019 sono risultate in totale pari a € 9.006.997 per una media di € 1.801.367 annui». Anche in questo caso un imponente abbattimento dettato dalla rabbia e dalla mancanza di informazioni si rivelerebbe inefficace. A confermarlo uno studio condotto negli Stati Uniti secondo cui l’uccisione dei lupi potrebbe rivelarsi efficace solo per una piccola parte degli allevatori, mentre per la restante parte la possibilità di subire attacchi potrebbe addirittura crescere. «Una gestione etica della fauna selvatica guidata dai “migliori dati scientifici e commerciali disponibili” suggerirebbe di sospendere il metodo standard di cattura dei lupi a favore di metodi non letali (cani da guardia del bestiame o fladry) che si sono dimostrati efficaci nel prevenire le perdite di bestiame nel Michigan e altrove» sottolineano i ricercatori.
La consapevolezza che deriva da queste notizie non può però prescindere dalle informazioni sui contesti in cui i lupi nascono e crescono, dalla conoscenza della loro natura da predatori opportunisti e dalla comprensione dell’importanza dei lupi nei nostri/loro territori. Negli ultimi decenni l’espansione delle attività agro-pastorali ha dimezzato la presenza di habitat naturali, rifugio per gli animali selvatici. Lo studio “Global maps of cropland extent and change show accelerated cropland expansion in the twenty-first century” evidenzia che tra il 2003 e il 2019 il 49% della nuova superficie coltivata ha preso il posto di intere foreste e boschi, minacciando i servizi ecosistemici a essi collegati. Ed è proprio la definizione di “servizio ecosistemico” a darci la risposta sull’importanza dei lupi. Secondo James Boyd e Spencer Banzhaf, esperti di economia politica e ambientale, «I servizi ecosistemici sono i prodotti finali della natura utili a produrre benessere per gli esseri umani».
L’importanza dei lupi e il loro ruolo in natura
Il “Piano d’azione nazionale per la conservazione del Lupo” redatto da ISPRA, Ministero dell’Ambiente e Unione zoologica italiana, evidenzia diversi motivi per i quali la conservazione del lupo è fondamentale. Oltre all’importanza culturale legata a questo animale, la presenza dei lupi nei nostri ecosistemi è vitale soprattutto per una questione ecologica. Il Canis Lupus infatti limita la presenza in natura delle prede di cui si nutre, tra cui i cinghiali, cervi, caprioli e altri ungulati erbivori. Il ruolo da predatore opportunista porta i lupi a cacciare animali malati o anziani, contribuendo in tal modo al controllo naturale degli animali erbivori e prevenendo al contempo fenomeni di sovrappopolamento. Il lupo rappresenta inoltre una vera e propria specie ombrello che protegge molte altre specie e che funge da indicatore dello stato di salute degli ecosistemi in cui vive.
Tra gli effetti indiretti della presenza di questo animale nelle nostre montagne c’è quello che gli esperti definiscono “cascata trofica“. Lo studio “The strength of the Yellowstone trophic cascade after wolf reintroduction” ha analizzato i benefeci della reintroduzione dei lupi nel parco di Yellowstone. Secondo la ricerca la presenza dei lupi è riuscita a modificare il comportamento degli erbivori, i quali allontanandosi da alcuni ambienti, hanno permesso la ricostituzione naturale dei salici ripariali, prima minacciati dall’eccessivo pascolamento dei cervi. Un effetto a cascata che ha favorito anche la creazione di nuovi habitat per molte specie di uccelli.
L’opportunismo dei lupi unito alla massiccia presenza di attività pastorali in ambienti naturali può, come è ovvio che sia, comportare l’uccisione dei capi da bestiame. Un problema che non può essere ignorato, ma sul quale bisognerebbe evitare di creare crociate ideologiche e antiscientifiche che finiscono per danneggiare gli stessi allevatori. La gestione dei lupi in Italia non può essere ridotta a una caccia illogica e senza limiti. Occorrerebbe invece finanziare l’istallazione di strumenti utili alla difesa degli animali da allevamento come recinti elettrici e dissuasori sonori, concentrarsi su altri metodi non letali come la presenza di cani pastore e l’utilizzo di flandry, un deterrente visivo pratico ed economico.
Per Adrian Treves del Nelson Institute for Environmental Studies dell’Università del Wisconsin «I predatori sono una risorsa pubblica la loro distruzione non può essere intrapresa alla leggera, senza prove che ne attestino l’efficacia, né per il solo beneficio di una ristretta minoranza di persone, come gli allevatori». Un’affermazione che evidenzia ancora di più l’inadeguatezza di proposte che in Italia invece ricevono sempre più consensi.
Marco Pisano