Il governo di Pechino ha concordato con i partner degli Stati africani un piano di investimenti pari a 50 miliardi di dollari, mentre il pragmatismo europeo comincia a vacillare nell’attesa delle decisioni in materia di politica estera del neo governo Trump.

Stiamo parlando di 2.233 km di ferrovie, 3.530 km di strade e 132 tra ospedali e scuole che negli ultimi 30 anni sono stati costruiti direttamente da aziende provenienti dalla Cina in Africa.

Il ministro degli esteri Wang Yi ha voluto sottolineare, con il primo tour del 2017 proprio in 5 Paesi africani, come le promesse commerciali dichiarate durante l’ultimo vertice sulla cooperazione tra Cina e Africa tenutosi a Johannesburg, verranno perseguite ed ottemperate ai fini di uno sviluppo economico che potrebbe giovare ad entrambi i partner in causa.

Le basi per confermare l’affidabilità del reciproco vantaggio di questo accordo, i cinesi, le hanno fondate sin dagli anni Settanta, con la costruzione della ferrovia TAZARA (Tanzania-Zambia Railway Authority). I 1.860 km di ferrovia collegano il porto di Dar es Salaam in Tanzania con la città di Kapiri Mposhi in Zambia, aprendo così il primo sbocco commerciale di cui il governo della Tanzania potesse usufruire per la gestione delle esportazioni ed importazioni estere, creando un alternativa al passaggio per il Sud Africa o dallo Zimbabwe.

Pechino scompare però dai radar dell’economia africana fino agli anni 2000, quando viene fondato il Forum sulla cooperazione tra Cina ed Africa. Questo strumento è stato utilizzato per intrattenere relazioni economiche con tutti e 54 i Paesi africani contemporaneamente, senza dover interpellare un singolo Stato alla volta.

Oltretutto, si può prendere come esempio più recente di investimenti da parte del governo di Xi Jinping in Africa, il Kenya: verrà inaugurata nel 2017 una ferrovia che collegherà Nairobi con Mombasa lunga 600 kilometri, per un costo totale di 3.6 miliardi di dollari; da aggiungersi all’autostrada aperta nel 2012, 50 kilometri che collegano Nairobi a Thika, costata 360 milioni di dollari.

Ma abbiamo esempi anche in Etiopia: la “Light Rail” di Addis Abeba è la prima metropolitana di superficie dell’Africa, 2 linee per 39 stazioni, aperta nel 2016. Si aggiungono, nel corso degli anni, anche una ferrovia che congiunge Addis Abeba con Gibuti, lunga 700 kilometri, ed un’autostrada di 85 kilometri per 6 corsie che porta dalla Capitale etiope ad Adama.

Gli Stati interessati alle promesse del governo di Pechino, dichiarate durante l’ultimo summit del 2015, sono Madagascar, ZambiaTanzania, Congo e Nigeria; le istituzioni statali di questi Paesi saranno portate ad un ulteriore incontro ravvicinato con i problemi sociali che affliggono le popolazioni locali, mediante un investimento finanziario oneroso mirato alla creazione di veri e nuovi impieghi nel settore occupazionale. In paesi in cui meno del 10% della popolazione possiede un contratto di lavoro, è comprensibile che il manifestarsi dell’opportunità di una fabbrica, dalla quale attingere il proprio sostentamento, diviene un’idea confacente al proprio sviluppo personale ed alla realizzazione empirica di un futuro per la comunità stessa.

Mirare al potenziamento delle infrastrutture invece che agli investimenti sullo sviluppo delle istituzioni: è questo il grande cambiamento operato in questo decennio nei confronti dei governi africani da parte della Cina.

Con quali assicurazioni?

Sicuramente non si può parlare di investimenti in Africa senza dover considerare come quegli stessi finanziamenti siano stati garantiti da Stati d’Africa che hanno usufruito di milioni di dollari derivanti da aiuti umanitari ed organizzazioni, divenendo vittime delle stesse problematiche di corruzione, violenza, brogli e misfatti che contraddistinguono anche la politica occidentale: facile immaginare cosa possa accadere in Paesi — talvolta veri failed States — non adeguatamente attrezzati a contrastare questi fenomeni. Venne ideato, di conseguenza, un metodo che lega una parte delle entrate derivanti dalla vendita di petrolio e dell’abbondante quantità di materie prime dei suddetti Paesi, parte che viene depositata su un conto di cui gli Stati non possono disporre. Una garanzia sul prestito, che riduce i rischi effettivi per il creditore e permette un applicazione di tassi relativamente bassi.

La Cina, dunque, non impone ulteriori obblighi ai prestiti effettuati, e questo risulta essere un ulteriore punto per spiegare l’interesse che i governi dell’Africa hanno mostrato.

Ma cosa ha spinto Pechino ad investire somme così ingenti, oltre ad un interesse per le risorse primarie?

Si tratta della conseguenza diretta di un processo arrivato al suo exploit: ovvero la crescita esponenziale dell’economia cinese. L’ascesa finanziaria, collegata ad un significativo aumento demografico, ha creato i presupposti per un recente aumento dei salari per i lavorati cinesi sul territorio nazionale. Essendo proprio quella manodopera a basso costo a formare il motore con cui l’economia cinese ha prodotto risultati così evidenti negli anni, chiaramente è stato necessario dover ricercare nuovi posti di lavoro, che possano esser retribuiti a minor costo, delocalizzando la produzione di manifatture, diretta all’esportazione, fuori dal territorio nazionale.

Ed è proprio questo che l’Africa sta divenendo: un processo di industrializzazione alle sue prime manifestazioni. Senza delle istituzioni strutturate e presenti sul territorio però, questo sviluppo rischia di divenire un’arma a doppio taglio per tutta la società del continente africano. Ed effettivamente, il recente crollo del prezzo del petrolio, unitosi all’abbassamento del valore sulle materie prime, ha creato l’accumularsi di debiti per i governi che avevano ricevuto dei finanziamenti economici. Un esempio lampante di questo fenomeno lo rappresenta l’Angola, in cui sono state costruite città gigantesche, servite con tanto di abitazioni, fabbriche, uffici, scuole di formazione per i dipendenti, ospedali. A causa proprio della crisi economica però, la maggior parte dei cittadini non ha potuto completare la transumanza verso queste nuove abitazioni, lasciando loro malgrado che le nuove costruzioni divenissero delle vere e proprie città fantasma.

L’Europa intanto, aspetta di conoscere quali saranno le decisioni del governo Trump in merito agli investimenti in Africa, soprattutto tenendo in considerazione che il terreno perso dall’Occidente nei confronti di Pechino sembra quasi irrecuperabile. La politica conservatrice e nazionalista di Trump, con il suo emblematico “America First”, non dovrebbe aprire ad uno scenario che possa comprendere aumenti dei finanziamenti  e creazione di nuovi posti di lavoro lontano dalle coste statunitensi.

Che posizione sceglierà di prendere la Comunità Europea?

Si tratterà, infatti, di un’evoluzione sociale ed economica senza precedenti in Africa, in cui centinaia di migliaia di cittadini verranno coinvolti in quella macchina capitalistica chiamata globalizzazione, alla quale risulta particolarmente difficile approcciarsi senza avere delle istituzioni con una base ben salda e senza possedere delle linee guida ben tracciate che possano portare ad uno sviluppo democratico nella politica dei Paesi africani. L’aiuto deve venire non soltanto nella creazione di quei posti di lavoro, ma soprattutto dal conseguimento di un progresso sociale. Esso potrebbe essere maggiormente raggiungibile aggiungendo al concreto manifestarsi di investimenti da parte della Cina e dei partner orientali l’aiuto della comunità occidentale nel necessario sviluppo istituzionale, così da garantire un iter che possa condurre all’affermazione di una realtà democratica che garantisca il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori e dei cittadini, invece di lasciare l’Africa intera in balia di una nuova ed alquanto deplorevole colonizzazione.

Niccolò Inturrisi

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