Nel corso della storia i corpi delle donne sono stati sempre considerati parte del campo di battaglia. Quei corpi non hanno mai cessato di essere protagonisti di un’azione militare meschina e aberrante, utile alle truppe per cercare di annientare il nemico. Anche oggi, in una contemporaneità sempre maggiormente attraversata da conflitti bellici, lo stupro rimane un’arma efficacissima da sfoderare al momento più opportuno. Ma le vittime di una pratica così becera come la violenza sessuale ha dovuto aspettare molto perché violenze come lo stupro venissero considerate dalle istituzioni e dal diritto internazionale per quello che sono, un crimine di guerra.
Lo stupro in guerra: le origini del male
L’utilizzo della violenza sessuale durante un conflitto affonda le sue radici in tempi remoti. Nel corso dei secoli questa pratica è sempre stata impiegata in qualsiasi conflitto a cui il mondo abbia assistito. Basti pensare al celebre episodio del Ratto delle Sabine attraverso Roma espanse il suo dominio, alle donne di etnia Tutsi violentate durante gli anni del genocidio in Rwanda nel 1994, alle centinaia di violenze perpetuate ai danni delle donne durante la guerra di dissoluzione in ex Jugoslavia o ai numerosissimi di casi di donne algerine stuprate dai soldati francesi durante la guerra d’Algeria 1954-1962. Nel corso della storia questa pratica si è perpetuata, assumendo forme sempre più crudeli aggravate dal fatto che sono rimaste, per lo più, impunite.
Il riconoscimento come crimine di guerra
Sempre considerato come un danno collaterale dei conflitti, soltanto 31 anni fa è stato riconosciuto come un crimine di guerra. Nel 1993, infatti, la Commissione per i Diritti Umani dell’ONU riconobbe lo stupro come crimine di guerra dopo che un gruppo di deputate europee ascoltarono le terribili vicende che accaddero durante la guerra in ex Jugoslavia. Pochi anni dopo, nel 1998, la Corte Penale Internazionale inserisce con lo Statuto di Roma la pratica di stupro, schiavitù sessuale e prostituzione forzata nella lista dei crimini di guerra.
Le conseguenze di uno stupro in un contesto di guerra
Le vittime di violenza sessuale durante un conflitto subiscono danni fisici e psicologici irreparabili. Ma il trauma non si limita al corpo, si estende anche nella loro coscienza. Lo stigma sociale che grava sulle sopravvissute le isola e le allontana dalle loro comunità, rendendo la ripresa ancora più difficile. Per esempio, nella Repubblica Democratica del Congo, dove è in corso uno dei conflitti più lunghi e violenti di sempre, le donne vittime di violenza da parte dei ribelli del 23M, si ritrovano emarginate dalle proprie famiglie e prive di qualsiasi sostegno nella loro comunità.
L’intento principale di questa terribile pratica è, infatti, quello di annientare psicologicamente e fisicamente la popolazione civile. Dal punto di vista sanitario, le vittime molto spesso contraggono malattie sessualmente trasmissibili, affrontano gravidanze indesiderate e si sottopongono ad aborti clandestini insicuri. Spesso, l’impossibilità di trovare nel territorio strumenti per ricevere un’assistenza medica adeguata aggrava ulteriormente queste condizioni, portando a morti evitabili.
Dal punto di vista ideologico, invece, lo stupro rappresenta un’estensione della conquista territoriale e costituisce un tentativo di appropriarsi ed usurpare ciò che è del nemico. Essenzialmente, compromette la coesione della comunità e indebolisce una parte di essa. La paura di essere violentate frena la mobilità delle donne che si ritirano dall’attività di resistenza e, quando gli autori di questi stupri restano impuniti, diminuisce la fiducia verso lo Stato che ha il compito di proteggere i propri cittadini anche in circostanze come la guerra.
Lo stupro nei conflitti armati non è mai un atto casuale. È una strategia di guerra che colpisce il corpo delle donne per distruggere le loro comunità oltre che il loro spirito. Nonostante i riconoscimenti giuridici internazionali, molto resta da fare per combattere l’impunità e fornire giustizia e sostegno alle vittime di questa pratica disumana le cui conseguenze riecheggiano anche dopo la fine dei conflitti.
Benedetta Gravina