Col termine mansplaining si fa riferimento a quell’atteggiamento paternalistico e accondiscendente di un uomo che spiega ad una donna qualcosa che lei conosce o di cui è esperta. La spiegazione, poi, è resa col tono tipico di chi parla con una persona che non è ritenuta in grado di capire. Il termine deriva dall’unione di man (uomo) ed explaining (spiegare) e, seppur l’atteggiamento sembri sollevare un problema futile, in realtà è uno dei tanti modi per sminuire le donne.
La circostanza in cui un uomo si senta autorizzato a puntualizzare e/o a precisare tematiche e argomenti, nonostante sia meno competente del suo interlocutore, soltanto perché di sesso femminile, rimanda all’idea che la parola di quest’ultima abbia meno valore. Una convinzione che si ripercuote in tutti gli ambiti della vita della donna, dalla famiglia al lavoro, alle relazioni sociali.
Per quattro giorni Unionen, il più grande sindacato svedese degli impiegati, ha tenuto aperta una linea telefonica completamente gratuita per segnalare casi di mansplaining. La metà delle chiamate ricevute provenivano da uomini che chiedevano come spiegare il fenomeno ai propri figli, come riconoscerlo e reagire nei confronti di chi lo attua, come non esserne a loro volta responsabili. Un’iniziativa lodevole che però è stata anche duramente attaccata, soprattutto da chi l’ha presa sul personale, come spesso accade quando si parla di discriminazioni e di uguaglianza di genere.
Nel mondo del lavoro, il mansplaining è un problema serio. Quest’atteggiamento può, infatti, rivelarsi una tattica per escludere le donne, anche se qualificate, dalle sedi e dai ruoli decisionali. Emblematica è una vignetta esplicativa lanciata dal sindacato Unionen. Due uomini e una donna sono colleghi di lavoro e, durante una conversazione, uno dei due le dice: «Abbiamo dimenticato di invitarti ieri dopo il lavoro. Comunque Steffe per caso ha portato la cartella con i documenti strategici, abbiamo bevuto un paio di birre, sai una tira l’altra, e alla fine ci siamo ritrovati ad aver preso una decisione».
“Gli uomini mi spiegano le cose”
Rebecca Solnit si trova ad una festa pullulante di intellettuali newyorkesi. Mentre parla con un collega scrittore e gli racconta del progetto a cui sta lavorando, l’uomo la interrompe per consigliarle la lettura di un saggio che potrebbe esserle utile, di un autore (ovviamente uomo) di cui non ricorda il nome. Peccato, invece, che il saggio l’aveva scritto proprio Rebecca Solnit. La scrittrice decide di raccontare quest’esperienza in un articolo cui ne seguiranno altri, proprio per denunciare ciò che accade spesso quando un uomo parla con una donna. Nasce così “Gli uomini mi spiegano le cose”, scritto nel 2014, ed è a partire da questi saggi che si inizia a parlare di mansplaining. Tuttavia, il termine non è stato coniato da Rebecca Solnit, come si tende a credere, ma deriva da un articolo uscito su The Cut. Scrive l’autrice: “Ogni donna sa a cosa mi riferisco: a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce, e che impedisce loro di essere udite quando osano parlare”. Alcuni uomini tendono a dare per scontato che una donna non possa intendersene di certe cose e che, proprio per questo, non potrà mai essere esperta di una issue.
Il neologismo e il concetto che esprime si è diffuso velocemente in rete perché molte donne avevano subito episodi simili, ma non erano mai riuscite a dar loro un nome. Con “Gli uomini mi spiegano le cose” Rebecca Solnit sottolinea come sia necessario considerare l’atteggiamento maschilista dell’uomo tuttologo alla stregua delle molestie; un gesto, apparentemente innocuo, che alcuni utilizzano per mettere in dubbio il valore delle donne e per schiacciarne l’autostima. Ma il mansplaining è un atteggiamento difficilmente riconoscibile, quindi serve esercizio per individuarlo. Nonostante sia ormai un concetto diffuso, tanto da essere menzionato nell’Oxford English Dictionary, e sia entrato a far parte del gergo comune in Nord Europa, l’Italia ha ancora difficoltà a recepirlo nel proprio lessico – e infatti manca anche una traduzione della parola – quindi è necessario inserirlo nel quotidiano, visto che dare un nome alle cose è il primo passo per riconoscerle e combatterle.
Usare il termine fuori contesto ne sminuisce il significato
La stessa Solnit ha però evidenziato un problema: l’uso del termine mansplaining fuori contesto, perché a causa del trend potrebbe essere utilizzato a sproposito per ricevere consensi. In uno dei pezzi pubblicati su The Cut, l’autrice fa notare come l’abuso del termine avviene sovente nei talk show televisivi. L’esempio che riporta è quello di tre politiche americane, in certi casi lontanissime da qualsiasi istanza femminista, che usano il mansplaining come arma per attaccare il proprio interlocutore. Questo uso così improprio del concetto rischia di creare confusione: il valore del termine infatti passa proprio per la puntualizzazione di un comportamento che appariva ambiguo e quindi difficilmente riconoscibile. Usando la parola in modo casuale ne si appiattisce il significato. Per combattere il sessismo è fondamentale problematizzare tutte quelle situazioni di disparità che consideriamo normali e scontate e quindi un uso consapevole delle parole – come in questo caso, del termine mansplaining – risulta necessario.
Valentina Cimino