Nel solco dei moti di Stonewall del 1969 e a motivo di questo evento epocale per la comunità queer, nel mese di giugno vengono organizzati i Pride in tutto il mondo. Il Pride è divenuto il simbolo della presa di coscienza da parte delle soggettività queer e delle lotte contro la violenza istituzionale dello Stato e la repressione da parte delle forze dell’ordine perpetrate nei loro confronti.
Dopo 55 anni dai moti di Stonewall, qual è la condizione in cui versa la comunità LGBT+ a livello globale? Secondo Amnesty nel gennaio 2024, «sono ancora 63 gli Stati che criminalizzano gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso. Tra questi, otto prevedono espressamente la pena di morte e nove la reclusione a vita». Inoltre, «secondo i dati dell’Osce, nel 2022 sono stati perpetrati 1052 crimini d’odio in 36 Stati nei confronti della comunità LGBTQIA+. In 635 casi si è trattato di aggressioni fisiche, alcune delle quali sfociate in omicidi. Una cifra che restituisce solo la minuscola punta di un iceberg, non solo perché ovunque si tratta di un fenomeno sotto-rappresentato, ma anche perché queste cifre non tengono in alcuna considerazione i crimini d’odio commessi in quegli Stati in cui la violenza contro le persone LGBTQIA+ è istituzionalizzata e tollerata».
A oggi, dunque, i Pride possono costituire ancora un imprescindibile strumento di lotta, ma cosa resta della prima famosa rivolta delle origini, delle sue radici politiche e delle sue rivendicazioni contro il sistema patriarcale e capitalistico, in particolar modo nei paesi in cui è possibile manifestare il proprio dissenso?
La repressione della queerness e i moti di Stonewall
Era la notte del 27 giugno del 1969 quando iniziarono i moti di Stonewall nella città di New York a partire dallo Stonewall Inn, un locale in cui erano solite ritrovarsi persone omosessuali e transgender e, altrettanto consuete, erano le retate delle forze dell’ordine con le conseguenti violenze da parte di quest’ultime nei confronti dei clienti. Solitamente, però, i gestori dei locali venivano avvisati dal distretto di New York prima delle incursioni della polizia; inoltre queste avvenivano a inizio serata affinché fosse poi possibile riaprire le attività commerciali nel corso della notte. Il 27 giugno ciò non accadde e furono arrestate le persone prive di documenti, più quelle che non indossavano un numero sufficiente di capi d’abbigliamento del proprio genere. Si dice che sia stata Sylvia Rivera a lanciare la prima bottiglia contro uno degli agenti e a esortare gli altri a reagire ai continui soprusi, ma le ricostruzioni di questa storia sono innumerevoli, al punto che finzione e realtà si confondono irrimediabilmente.
Quel che è certo è che nel clima di forte repressione in cui versava la comunità queer bastava una scintilla per far saltare in aria una polveriera e dare inizio ad accese proteste. Infatti, già a partire dagli anni ’50 con il maccartismo s’intensifica la repressione nei confronti degli omosessuali. Emblematico è il Lavander scare, cioè la convinzione che gli omosessuali fossero dei «rischi per la sicurezza nazionale», con il conseguente licenziamento di migliaia di persone dai dipartimenti di Stato. Il Lavander scare emerge in parallelo al dilagante suprematismo bianco e alla martellante campagna anticomunista, infatti «questo è un periodo caratterizzato da un pervasivo dibattito pubblico sulla definizione stessa di americano e di chi vi rientrasse».
Nel mese di luglio, poi, nacque il Gay Liberation Front, un’organizzazione che si poneva in aperta opposizione alla società capitalista, razzista e imperialista. L’anno seguente organizzò una marcia dal Greenwich Village a Central Park in commemorazione dei Moti di Stonewall, che viene considerato il primo Pride della storia. Il poeta Allen Ginsberg pare abbia affermato, parlando dei moti di Stonewall, che con quella battaglia le persone queer avevano perso lo «sguardo ferito di prima ed erano passati a rivendicare con orgoglio la propria identità e la propria opposizione al sistema di oppressione che la negava».
Il Pride non è un pranzo di gala
Anche la storia del movimento LGBT+ italiano è degna di nota, basti pensare alla famosa contestazione di Sanremo del 1972 contro il convegno del Centro Italiano di Sessuologia (CIS) riunitosi per affrontare il tema delle terapie riparative atte a curare gli omosessuali. Questa manifestazione fu organizzata dalla prima associazione gay italiana, il F.U.O.R.I.! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) fondata da Mario Mieli, al fine di disvelare la condizione di continua invisibilizzazione vissuta dagli omosessuali. Tra i capisaldi del suo programma vi era la critica alla famiglia monogamica, la negazione dei ruoli sessuali e di genere, la critica alla patologizzazione dell’omosessualità e quindi delle istituzioni psichiatriche, la necessità di stringere un legame con l’avanguardia rivoluzionaria e con i gruppi femministi che stavano emergendo.
Ma cosa resta a oggi del percorso politico e delle rivendicazioni dei movimenti queer degli anni ’70? Una delle tematiche più dibattute recentemente è senz’altro quella relativa alla partecipazione delle istituzioni e delle multinazionali alle manifestazioni che si tengono nel mese di giugno.
Negli ultimi anni, infatti, sempre più Pride cosiddetti istituzionali hanno ricevuto finanziamenti economici e sponsorizzazioni da parte di grandi multinazionali come Bayer, Coca-Cola, Netflix, Amazon, Google, Microsoft, Deliveroo e UniCredit. Queste realtà, necessarie al fine di realizzare parate spettacolari e per assicurare la partecipazione di personaggi pubblici di spicco in veste di madrine dei Pride, sono al contempo portatrici di idee e di modus operandi antitetici allo spirito radicale di queste contestazioni. A partire dal mese di giugno, infatti, queste stesse multinazionali sono spesso al centro di accese discussioni riguardo alle pratiche di rainbow washing, cioè quelle strategie di marketing che sfruttano l’immaginario proprio di alcune comunità e delle loro battaglie al fine di trarne profitto.
Enrico Gullo, dottore in storia dell’arte e attivista, su Gaypost afferma: «le aziende non sono soggetti neutri, ma portatrici di senso, e valori. Delle rivendicazioni Lgbt+ prendono il pezzetto che più gli interessa, quello che ritengono più presentabile: la retorica dell’amore che vince su tutto, la famiglia, la libertà dell’individuo. Tutto il resto rischia di essere messo da parte. È facile per un’azienda che comprime i diritti sindacali, passa sopra al diritto di disconnessione del singolo, e costruisce profitti sulla precarizzazione, stendere una mano di rosa sulla sua immagine dando quattro soldi agli organizzatori della parata Lgbt. Semplice quanto dipingere il proprio logo con i colori dell’arcobaleno per una settimana. Ma l’ipocrisia di alcuni sponsor basta per dire no a tutti?».
Gullo si interroga, poi, sul ruolo positivo giocato dallo schieramento delle aziende private a favore dei diritti LGBT+ nell’orientare e plasmare l’immaginario collettivo e nel portare all’interno del discorso pubblico tematiche proprie dei movimenti di liberazione queer. Al contempo, però, il rischio di costruire nuove forme di egemonia culturale da parte di chi detiene un colossale potere economico è considerevole. Difatti, negli ultimi anni ci sono stati diversi Pride che si sono scagliati contro la commercializzazione delle manifestazioni queer, riempiendo questo contenitore di istanze che richiamano apertamente la rivolta delle origini: Marciona a Milano, Priot a Roma, Free-k Pride a Torino, o Rivolta Pride a Bologna, per citarne alcuni.
Il capitalismo si nutre da sempre delle differenze e della mercificazione delle stesse. Il rischio è che anche il Pride divenga un’esperienza aesthetic e patinata, un bene di consumo come un altro da proporre per qualche settimana all’anno. Si rende così necessario contestare le forme d’inclusione che non sono nient’altro che strategie commerciali di cooptazione in cui a essere inclusi sono sempre più consumatori, non soggettività effettivamente libere. L’antropologo marxista queer Gianfranco Rebucini afferma che «questa inclusione nell’ordine capitalista si realizza nella misura in cui si converte in consumatori accettabili». Dunque, la libertà sessuale o di genere attualmente non è altro che la libertà di riprodurre l’ordine socio-economico vigente.
Il primo Pride fu una rivolta guidata da persone queer, transgender, razzializzate, sieropositive, sex worker e della working class. Una rivolta contro la repressione della polizia, la violenza istituzionale dello Stato, contro un sistema che continua ad avere un ruolo centrale nell’oppressione delle soggettività queer. Nel sistema tardo-capitalistico ormai concetti come libertà e diritti sono stati cannibalizzati e anche il desiderio è stato messo a valore, perciò il Pride dovrebbe porsi in contrasto rispetto alla colonizzazione del linguaggio e dell’immaginario delle soggettività queer e con ciò incarnare l’urgenza di raffigurare modi alternativi di esistere e di autodeterminarsi. L’attuale performativismo spettacolarizzante costringe, invece, alcuni Pride a negoziare al ribasso le proprie istanze, dimenticando che, riprendendo Audre Lorde, «non si può smantellare la casa del padrone con gli strumenti del padrone».
Riuscire a preservare l’elemento politico e sovversivo di queste manifestazioni è, dunque, fondamentale, perché il Pride è la massima espressione della queerness in quanto momento di radicale liberazione, di collettivizzazione delle esistenze e in quanto spazio di contro-potere, perché, in fondo, il Pride non è un pranzo di gala.
Celeste Ferrigno