
Come tante bambine, ho subito il fascino e l’attrazione per Barbie, la bambola più famosa al mondo, e del suo mondo che si è arricchito di camper, piscina, villa, cani, gatti, amici ed è in continua espansione anno dopo anno dalla sua prima comparsa. Così, quando, nel periodo natalizio, sono venuta a conoscenza che mia nipote Bianca, sette anni, tra i regali chiesti a Babbo Natale, aveva incluso una Barbie non sono rimasta stupita. Finora il mondo dei suoi giochi era stato popolato dalle principesse del ghiaccio di Frozen, che non ha abbandonato perché anche Elsa e il suo cavallo erano tra i doni richiesti per Natale. Mia nipote, senza ripudiare nessuno, ha incluso nei suoi desideri la bambola per antonomasia ed è partita alla sua scoperta. La sua richiesta includeva anche Ken, il fidanzato storico di Barbie perché “è brutto essere soli”.
Erano gli anni Cinquanta e Ruth Handler, cofondatrice dell’azienda di giocattoli Mattel insieme al marito Elliot Handler e all’amico Harold Matson, era alla ricerca di una nuova idea da lanciare sul mercato. All’epoca la gamma di giocattoli a cui le bambine avevano accesso era piuttosto limitata. Le bambole, prima di Barbie, con cui le bambine giocavano, sognavano e costruivano sé stesse, erano bambole infantilizzate, neonati da accudire. Giocare con quelle bambole era fare le prove della vita che avrebbero vissuto. Era costruire le madri, le casalinghe, gli angeli del focolare del futuro.
I sogni son desideri… del capitale
Il futuro, però, sembrava voler percorrere nuove strade e costruire nuove donne e alle bambine era permesso sognare una vita oltre la casa, i figli e le torte. Barbie nasce in uno scenario americano che vede all’orizzonte nuovi valori e nuovi modelli a cui ispirarsi: i modelli della nuova società industriale.
Gli anni Sessanta segnano un periodo di svolta per l’America: alla Casa Bianca sale al potere il giovane democratico John Kennedy, in ambito artistico la pop art rivoluziona totalmente il modo di fare arte e ciò accadde all’interno di una società dove le industrie, attraverso il settore pubblicitario, veicolano il nuovo mercato di massa. I prodotti immessi sul mercato hanno la caratteristica di essere nuovi e di facile consumo e per questo considerati migliori. Gli americani reagiscono a questa operazione di marketing accogliendo i prodotti e, in modo particolare, quelli considerati status symbol come la conquista di un diritto, quello di avere tutte le merci che il mercato offriva.
La casa, l’automobile, la TV erano considerati una sorta di diritto di nascita. La pubblicità rafforzava e guidava verso un consumo sempre più spinto, promuovendo l’idea che inseguire il nuovo e l’ultima moda fosse sempre la scelta migliore e che il vecchio fosse simbolo di rinuncia e di privazione. Georg Simmel scrive, ne “La Moda”, che nell’atteggiamento delle classi subalterne di aspirazione e desiderio del corpus di merci e dello stile di vita delle classi più agiate, si può riscontrare la convinzione che attraverso il possesso di prodotti e stili di vita si ottenga anche un avanzamento verso l’alto nel posizionamento sociale: “Le classi inferiori, infatti, guardano in alto ed aspirano ad elevarsi”.
Riguardo alla funzione di controllo, produzione e indirizzo dei bisogni, nella società industriale, scrive Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”, “le forme prevalenti di controllo sociale hanno carattere tecnologico in senso nuovo. Si sa che la struttura tecnica e l’efficacia dell’apparato produttivo e distruttivo sono state uno strumento della maggior importanza per assoggettare la popolazione alla forma stabilita di divisione sociale del lavoro durante tutta l’epoca moderna”.
Barbara Millecent Roberts, questo il nome completo di Barbie, vede la luce in una società fortemente consumistica. Il consumo è affermazione e scalata sociale. Il singolo individuo, la sua volontà e le sue capacità sono il motore per una vita migliore. Affermarsi è consumare e gli oggetti che si posseggono dicono chi si è. Barbie, vestita con un costume da bagno a righe bianche e nere e con i capelli raccolti in una coda di cavallo, viene presentata all’International American Toy Fair di New York. È il 9 marzo 1959 e sarà questa la sua data ufficiale di nascita.
Il tetto di cristallo, tinto di rosa
Barbie, attraverso il gioco, dice alle bambine che il futuro delle donne non è solo essere madri e mogli. Ma questa bambola assunta a simbolo di donna emancipata, considerata da un certo femminismo una sorta di icona, c’è da chiedersi se lo sia mai stata veramente.
Nel corso dei suoi sessantasei anni, Barbie e il suo mondo hanno rappresentato la società capitalistica allineandosi ad essa in modo funzionale come un messaggero infiltrato nelle camerette di tante bambine e bambini, per tingerle di rosa e plasmare gli adulti che avrebbero popolato la futura società. Rappresentanti dei valori, delle aspirazioni e dei consumi che il capitale produce per continuare a riprodursi ed espandersi.
Ad ogni nuovo abito indossato, ad ogni nuova acconciatura realizzata, ad ogni nuovo oggetto entrato a popolare Barbie World, vengono tessuti e prodotti tratti caratteristici dell’affermazione e costruzione dell’identità nella società capitalistica. L’emancipazione della donna rappresentata da Barbie è il simbolo di un femminismo liberale, lo stesso femminismo che promuove Giorgia Meloni dove ci racconta che dentro “il presidente”, invece che “la presidente”, c’è un riscatto per le donne. Come se vestire i panni dell’uomo fosse liberazione anziché funzionalità al potere del capitale. Il femminismo liberal non è portatore di valori antagonisti al sistema capitalistico né è una costola che mantiene le donne subalterne al sistema anche dove rovescia la subalternità al maschile.
Sfondare il tetto di cristallo, modo di dire assunto negli anni Settanta, a indicare la difficoltà di conquistare da parte di donne e appartenenti a gruppi marginali, ruoli e carriere ad appannaggio di uomini e privilegiati, non è restituire potere alle donne ma una acquisizione di potere da parte di donne integrate nel sistema o che aspirano ad integrarsi in modo funzionale, dove alla loro scalata di successo di frequente corrisponde l’impiego di donne marginali, immigrate spesso clandestine, che svolgono quei lavori, sottopagati e sotto ricatto, che queste hanno abbandonato per dedicarsi al lavoro e alla carriera.
Il femminismo liberale è un ostacolo per il vero femminismo, quello di classe. Anzi, è un vero nemico di quest’ultimo. Confonde conquiste e diritti di poche con la necessità di una lotta che metta al centro la conquista di uno Stato sociale solidale ed equo, dove i diritti siano una emancipazione per tutti. Ciò che accomuna i differenti gruppi marginali è lo stesso posizionamento che questi hanno nei confronti del capitalismo: lo status di sfruttati. Una lotta che metta in discussione l’attuale struttura sociale, dove il patriarcato è un alleato comodo del capitalismo che pone in cima ai suoi obbiettivi il profitto necessario alla sua costante riproduzione.
Barbie è stata ed è una alleata dell’ideologia neoliberista tanto che ne ha la stessa capacità pervasiva di digerire qualsiasi forma di antagonismo al sistema e farne un prodotto appagante, disinnescando nell’immaginario simbolico del gioco le forme di lotta al sistema e “riciclando” figure iconiche di lotta al capitalismo: come la Barbie Frida Khalo che non è certo stata una accondiscendente esponente del capitalismo.
Inclusività è profitto
Dalla bambola bionda con gli occhi azzurri e dalle misure perfette, impossibili per un essere umano, alta 11,5 pollici, ossia 29,21 centimetri, la nostra messaggera ne ha fatti di cambiamenti. Oggi la nostra Barbie è icona di inclusività e di politically correct. Nel 1968 fa la sua prima comparsa alla Mattel una bambola dalla pelle nera: Christie. Ma sarà solo nel 1980 che avremo la prima Barbie nera. Nel 2015 vede la luce la linea fashionistas: una serie di Barbie, oggi circa 200 soggetti, che attraverso le diversities si propone di essere all inclusive e portare nel gioco l’accettazione della diversità. Le Barbie Fashionistas hanno nove fisicità differenti tra curvy, tall e petite, trentacinque tonalità di pelle, ventidue colori di occhi e oltre novantaquattro di capelli.
In questi anni, quello che era sempre stato un graduale adeguamento ai costumi e alle mode si è velocizzato incredibilmente, rendendo la bambola simbolo di inclusività e un’attiva paladina delle pari opportunità. In carrozzina, non vedente, curvy o con una protesi. Barbie diventa paladina dell’”imperfezione”. La Mattel da tempo cavalca il tema dell’imperfezione tanto che nel 2023 la celebra nel film uscito in quello stesso anno: una Barbie imperfetta lascia Barbieland per andare nel mondo reale alla ricerca di verità ed autenticità.
Un giocattolo e il gioco che ne scaturisce non sono imparziali, non sono innocui strumenti di divertimento di bambine e bambini. Sono, invece, un potente mezzo di manipolazione per creare consenso, accettazione e promozione dell’ideologia dominante e dei suoi valori. Un giocattolo è un portavoce silenzioso che parla alle menti dei bambini e delle bambine, costruisce valori e stili di vita e di consumo. Una merce per una precisa fetta di mercato e per uno specifico consumatore: il bambino. In un recente studio, alcuni neuroscienziati dell’università di Cardiff hanno dimostrato che il gioco con le bambole attiva delle precise aree del cervello stimolando lo sviluppo dell’empatia e della capacità di elaborazione delle informazioni sociali. Sulla stessa linea è l’ultimo prodotto immesso sul mercato dalla Mattel nel 2019, le creatable world, ossia le bambole senza genere.
L’inclusività è un mantra con cui il capitalismo ci culla, coltivando aspirazioni legittime ad essere accettati e trovare il proprio posto nel mondo. All’interno della società capitalistica l’inclusività è strategia di marketing di cui le aziende si servono, perché quelle più inclusive performano di più. In questo modo l’inclusione sbiadisce nell’aspetto etico mentre si definisce come motore di crescita economica, come afferma la ricerca condotta da Jukka Sihvonen della Aalto University School of Business, che ha esaminato il rapporto tra politiche aziendali inclusive e ritorno in termini di produttività.
di Annamaria Ottaviani ed Elena Coatti