Avere ancora tra le mani un attimo che è corso via insieme al tempo, un momento fatto di luci ed ombre che giocano a rincorrersi, o di vuoti. Messaggi che il più delle volte decidiamo di inviare a noi stessi che riteniamo debbano rimanere intaccati come promemoria di ciò che è stato, di ciò che eravamo. Ma a volte l’occhio è più veloce di noi, ha il potere. Quando il tempo ci rema contro, l’occhio coglie ciò che l’uomo non ha la facoltà di dire, vedute che non abbiamo il tempo di assorbire, ma che ci assorbono a loro volta. Ma non è un segreto. La fotografia ci soccorre dandoci la possibilità di riavvolgere il nastro. La fotografia è consapevolezza, una presa di coscienza postuma che aiuta gli uomini a comprendere i propri limiti, in una realtà che spesso viene percepita fuori fuoco. In termini tecnici quest’arte non è altro che il frutto delle interazioni tra luce e materia, è l’estensione di un’immagine permanente.
Con questo termine è possibile indicare tanto la tecnica per riprendere le fotografie quanto le immagini riprese. Non viene allora spontaneo pensare alla macchina fotografica come a una piccola mente dotata di un occhio che ha la capacità di catturare qualsiasi tipo di immagine, imprimendola nella propria memoria con la possibilità di condividerla con persone che non hanno avuto la possibilità di vivere quell’attimo? Non la definireste voi, come tutte le forme d’arte, un efficace antidoto contro il tempo?
C’è da dire, però, che in un’era fatta di reflex e post produzione, è quasi “romantico” poter osservare immagini provenienti dal passato. Fotografie senza filtri, in ogni senso. Immagini che colpiscono più per il messaggio, celato o ben visibile, che riescono a inviare, che per la qualità. Gli occhi e la mente sono pronti alla ricezione, qualsiasi sia l’emozione da accogliere. Un attimo immortalato che entra nella storia. Qualcosa che, secoli fa, pareva avere quasi accezioni divine, ma che ha poi trovato nella scienza e nell’ingegno dell’uomo le risposte giuste per emergere dall’oscurità.
Perché in effetti la fotografia nel suo sbocciare non è stata sempre apprezzata: ai sui albori, una voce illustre si leva contro l’incredibile innovazione. La voce di Charles Baudelaire, che nell’opera “Salon” del 1859 si lancia in una critica, a tratti feroce e velenosa, contro la fotografia, e contro i suoi inventori, ammiratori e sostenitori. Il poeta francese critica la nuova pratica tecnologica vedendo in essa un’evidente manifestazione della massificazione, dell’industrializzazione dell’arte e, più in generale, della cultura. Nonostante le numerose polemiche, nel corso del tempo il suo progresso ha donato all’umanità fondamentali testimonianze, frammenti di storia di cui l’eco è tutt’ora udibile.
Dapprima uno strumento utilizzato principalmente per ritratti, la fotografia assunse con il passare degli anni un’aura sempre più artistica. Uno dei suoi principali sostenitori, Peter Henry Emerson, la definì arte pittorica, abbinandola dunque a un’altra splendida manifestazione di intensa bellezza. La vera qualità della fotografia è quella di essere uno strumento piacevolmente affascinante quanto estremamente utile. Il potere delle immagini è forte, diventa quindi importante per trasmettere e tramandare eventi, paesaggi, volti più o meno noti. È vero e proprio mezzo di ricerca storica, di racconto illuminato delle vite che compongono il senso del tutto. Ogni immagine porta con sé un’attendibile verità. Una verità difficile da estirpare, se non impossibile, perché umana.
Si è tutti d’accordo che la fotografia non è da leggere come semplice mimesi del reale. Non soltanto perché in alcuni casi sovverte il modo proprio di “vedere” il mondo concedendo allo sguardo l’occasione di guardare libero dalla tirannia dell’abitudine per cogliere al di là della semplice presenza, ma anche perché il kairós (ossia il momento giusto, opportuno) che la fotografia cattura è talmente pregno di vissuto che rappresenta una durata.
La fotografia storica è la più alta testimonianza tra i generi fotografici di come questo tempo rimanga imprigionato nell’eternità dell’istante. La storia raccontata ha sempre un alto indice di soggettivismo che impedisce di poter avere un resoconto corrispondente alla realtà dei fatti, che consenta a chi non ne è stato testimone diretto di farsi un’idea propria e fedele agli eventi accaduti. Il prospettivismo in questi casi si fa necessario, poiché col dichiarare una verità indiscutibile riabilita la coscienza critica del singolo. Infatti la prospettiva del fotografo che guarda l’evento e lo fissa in un’immagine può riportarci all’idea che il racconto avvenga in modo parziale e secondo una modalità che narra a partire dal proprio punto di vista.
È corretto pensare, dunque, che non esistono immagini, fotografie più importanti di altre. È pur vero, però, che alcune istantanee hanno il potere di rimanere impresse nella nostra psiche per la loro schiacciante efferatezza, per la loro impressionante capacità di trasmettere sensazioni che probabilmente appaiono così lontane dalla nostra quotidianità eppure così reali, vere, disumane al punto da suscitare umanità.
Come dimenticare, ad esempio, uno dei fotogrammi più emblematici, simbolo di lotta e di ribellione in seguito all’attuazione delle leggi razziali del 1935? Si tratta di un’immagine che mostra una folla che fa il saluto nazista con in mezzo un unico uomo a braccia incrociate. La storia è piuttosto nota e la foto è esposta al centro di documentazione “Topography of Terror” che si trova nella vecchia sede della Gestapo, a Berlino. La fotografia venne scattata nel 1936 in occasione del varo di una nave al porto di Amburgo, alla presenza di Adolf Hitler. Vi siete mai chiesti chi fosse quest’uomo? Cosa nascondesse il suo gesto, cosa si celasse dietro quest’immagine?
L’uomo che si distingue nella folla si chiama August Landmesser. Nel 1936, quando venne scattata la foto, aveva appena 25 anni ed era un operaio dei cantieri navali di Amburgo. L’anno precedente aveva sposato Irma Eckler, una ragazza ebrea di 22 anni da cui ebbe due figlie. Le leggi razziali entrate in vigore nel 1935 impedirono di riconoscere il loro matrimonio: August venne cacciato dal partito nazista e poi fu arrestato con la moglie nel 1938 per aver «disonorato la razza». Probabilmente August non fu l’unico in quella folla ad aver ripudiato le ideologie nazifasciste, ma sicuramente fu l’unico ad aver rischiato la vita pur di difendere i propri principi, l’unico ad essersi sottratto ad un futuro in cui la paura, la collusione, la sottomissione, lo avrebbero annullato. August è simbolo di coraggio, e la sua fermezza nel mancato gesto ne è l’evidente prova.
Ma passiamo ad un’altra storia. Come può una semplice foto che ritrae un paio di occhiali rimanere nella memoria dell’umanità e nella storia della fotografia? Eppure è realmente accaduto. Ad essere stati immortalati sono gli occhiali di John Lennon (cantautore, polistrumentista, paroliere, attivista e attore cinematografico britannico) ricoperti di sangue in seguito al suo assassinio. L’autrice dello scatto è sua moglie, Yōko Ono, rinomata artista giapponese, la quale colse l’occasione per condividere lo scatto su Twitter per ricordare il loro anniversario di matrimonio, celebrato il 20 marzo del 1969. L’artista indossava gli occhiali il giorno in cui fu ucciso, l’8 dicembre del 1980, e per sua moglie oggi rappresentano non solo il ricordo indelebile di un’immagine divenuta l’icona della musica British in tutto il mondo, bensì anche un valido motivo per sollecitare una maggiore rigidità delle leggi americane contro il possesso delle armi. Fu ucciso da un folle John Lennon, freddato con cinque colpi di pistola mentre rincasava nel West Side di New York proprio con Yoko Ono. Uno dei proiettili trapassò l’aorta e pose fine alla sua esistenza nel Roosevelt Hospital, l’ospedale dove fu dichiarato morto alle 23.07.
Più recente è, invece, la storia di Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni morto nel naufragio di un’imbarcazione che andava da Bodrum, in Turchia, a Kos, in Grecia, nel settembre 2015. La sua famiglia era una delle tante che stavano scappando dalla guerra civile siriana. La foto che ritrae il corpo senza vita del piccolo Alan sulla riva, scattata da Nilufer Demir della Dogan News Agency, fu condivisa sui social network migliaia di volte mentre la stampa internazionale si chiedeva se fosse opportuno pubblicarla. Divenne il simbolo della guerra in Siria e anche della difficoltà incontrate da molti migranti nel tentativo di raggiungere una vita migliore.
Ma c’è ancora chi di fronte a scene di tale ferocia parla di invasione. Ad incentivare l’odio e la paura sono state numerose politiche di austerità messe in atto nell’ultimo anno che trasmettono la sensazione di un continente in guerra. A giugno 2018, un vertice di emergenza dell’Ue è sfociato in un piano in dieci punti che comprendeva l’uso della forza militare “per catturare e distruggere” le barche usate per trasportare illegalmente i migranti. Poco dopo, l’Ungheria e altri paesi dell’Europa orientale hanno cominciato a erigere barriere di filo spinato. Nonostante la sensazione di essere di fronte una crisi senza precedenti, in realtà né la crisi in sé, né l’incoerente risposta dell’Ue rappresentano una vera novità. La macchina economica appare inarrestabile anche di fronte alla morte.
Ognuno di questi fotogrammi nasconde una storia, un coacervo di emozioni più o meno evidenti che, pur volendo, non è possibile far proprie del tutto. Si tratta di vissuti completamente diversi che sembra non abbiano nulla in comune. Eppure qualcosa che parifica il tutto c’è: è l’impotenza, l’immobilismo che assale l’animo umano di fronte ad un attimo di cui non è (o non è più) protagonista, padrone, agendo in quell’istante da semplice spettatore del tutto inerme al cospetto di eventi che conducono l’uomo ad uno stato d’incredulità, ad un silenzio vivo.
Qual è, dunque, l’antidoto che rende una foto immortale? La risposta, seppur paradossale, è evidente. è tutto ciò di cui l’uomo è fatto a rendere un attimo eterno, a rendere il kairós duraturo. È l’uomo e il suo grado di sensibilità, di fragilità, è la sua capacità di cogliere il miserrimo, il sublime, tutto ciò che irrompa nella sua quotidianità con veemenza. È più semplicemente il suo voler sentire, osservare: ciò costituisce il tirocinio forse più lungo di tutte le arti.
La fotografia, così come tutte le forme in cui è possibile declinare la parola “arte” , perde ogni profondità di campo in mancanza di un’adeguata profondità di sensibilità, e senza essa o, al contrario, in eccesso di essa, l’uomo diviene l’artefice di ciò verso cui egli prova indignazione o ammirazione. Colui che crea l’arte ha lo scopo di arrestare il movimento con mezzi artificiali, e tenerlo fermo in tal modo che cent’anni dopo, quando un estraneo guarderà l’opera realizzata, torni a muoversi, perché è vita.
Mena Trotta