In queste ultime settimane, più o meno tutti i commentatori politici, volendo definire un bilancio del Midterm (le elezioni di metà mandato presidenziale per eleggere la nuova Camera dei Rappresentanti e un nuovo terzo dei senatori) hanno sostanzialmente concordato sul fatto che in linea di principio il presidente Trump abbia perso: in effetti, molti media internazionali insistono sul fatto che l’appuntamento elettorale sia stato favorevole ai democratici, apparentemente riemersi da due anni di oblio politico.
Si tratta di vera gloria per la “sinistra” americana? Trump esce davvero ridimensionato dalle ultime consultazioni, perdendo, seppur di poco, il consueto “referendum” sul Presidente in carica? Queste elezioni, che hanno rivelato un’America spaccata a metà potrebbero alla lunga riscrivere gli equilibri interni degli Stati Uniti in vista delle Presidenziali del 2021?
Infine, se a tutte queste domande si potesse, ipoteticamente, rispondere con un convinto “sì”, allora perché nelle ultime settimane pare riemersa (per non dire riesumata) l’ipotesi di una candidatura di Hillary Clinton alle Presidenziali del 2021? Se c’è il nuovo che avanza, un’inarrestabile “blue wave“, a che serve ripescare il vecchio dalla naftalina?
Il bilancio del Midterm è tutto fuorché semplice
Per sgombrare il campo da equivoci, diciamo innanzitutto che, secondo chi scrive, la risposta alle precedenti domande sul se si sia verificata una presunta caduta di Trump e una rinascita dei democratici non è “sì”, bensì “ni“.
Il perché è presto detto. Il partito dell’asinello blu ha conquistato la Camera, è vero, con una maggioranza di 235 voti, recuperando consenso in rapporto alla popolazione (infatti, alla Camera si attribuiscono seggi proporzionalmente ai numeri di abitanti delle singole circoscrizioni); non ce l’ha fatta però a prendersi il Senato, dove invece è ancora sotto di 6 seggi, soprattutto perché ha perso alcuni duelli in Stati chiave (specialmente Indiana e Florida, e al Senato si attribuiscono due seggi a ciascuno Stato di per sé).
Al di là dei numeri, si può dire, poi, che uno degli astri nascenti del partito democratico, Beto O’Rourke, è uscito con le ossa rotte in Texas dal confronto col più navigato Ted Cruz. Perciò, ecco un primo fallimento della “next generation“.
Ad ogni modo, la nuova nidiata di politici democratici, comunque tanti, affamati di riscatto e molto al femminile, esiste e ne è un simbolo la newyorkese (del Bronx) Alexandria Ocasio Cortez, giovane e rampante neoeletta deputata alla Camera dei Rappresentanti.
Il problema è che a Trump, di tutto questo vento di cambiamento e apparente ripresa del partito democratico, sembra non importare nulla. Per il Presidente, il bilancio del Midterm era già chiaro dopo lo spoglio delle schede nei primi Stati chiave: «Vittoria straordinaria, contro tutto e tutti!», questo il suo pensiero in sintesi. Nessuno si è presentato certo a smentire i tweet entusiastici di The Donald, una volta conosciuto il risultato alla Camera. Questo perché in America conta più – anche mediaticamente – tenere il Senato, dove si fa la “grande politica”, quella delle élites e delle lobbies.
Il bilancio del Midterm secondo Trump
In teoria, dicono alcuni, la maggioranza al Senato ti fa governare la politica estera, quella alla Camera la politica interna. Per un sovranista come Trump, allora, la sconfitta tra i Rappresentanti dovrebbe costituire una vera disfatta. E invece no: lui insiste col trionfalismo, perché qualcuno tra i suoi consulenti deve avergli fatto presente che solo cinque volte nella storia le elezioni di Midterm hanno riconfermato la maggioranza presidenziale al Senato e che questo dato andava mediaticamente sfruttato.
Ancora, e forse ancor meglio, Trump conserva lo zoccolo duro del suo elettorato, cioè quei bianchi arrabbiati e poco istruiti ai quali dai in pasto un nemico e ti sollevano il mondo, o meglio un muro, specie se il “nemico” è ispanico e tenta di entrare più o meno legalmente negli Stati Uniti.
In aggiunta, il Presidente può osservare una leadership democratica totalmente frammentata, senza alcun nome di peso che possa fargli una concorrenza seria e personale.
In sostanza, nonostante tutti lo dessero per perdente, con gli indici di gradimento al minimo, non solo Trump ha praticamente conservato le sue posizioni, ma ha ancora due anni di vantaggio rispetto a un credibile candidato democratico, che potrebbe emergere solo a partire da oggi.
Tanto ininfluente, allora, si è rivelato questo famigerato bilancio del Midterm, che Trump si può permettere (è cronaca di questi giorni) non solo di annunciare il ritiro degli USA dallo scenario bellico in Siria e persino dall’Afghanistan, mantenendo una delle sue prime promesse elettorali, ma anche di porre un ultimatum al suo partito sulla realizzazione del muro col Messico, nell’ambito del gioco più grande dell’approvazione del bilancio da parte del Parlamento uscente (non proprio una mossa da sconfitto ridimensionato).
E tanti saluti all’ennesimo grande funzionario che l’ha appena abbandonato (il capo del Pentagono Jim Mattis): questo, in fondo, è ancora il Governo, il Partito e il Paese di Trump.
L’ipotesi Hillary post bilancio del Midterm
In questa situazione, avrà intanto pensato Hillary Clinton, perché mai una vecchia volpe della politica come lei dovrebbe farsi da parte? L’ex first lady, nonché Segretario di Stato con Obama, lasciandosi “sfuggire” che le piacerebbe, certo, essere Presidente degli Stati Uniti nel 2021, ha scatenato un polverone mediatico che ha portato molti a riflettere sulle prospettive della sua nuova candidatura, per lei e per il partito. Alcuni hanno tentato analisi interessanti sui contro di una sua nuova discesa in campo e bisogna dire che si tratta di argomenti piuttosto convincenti.
In particolare, Hillary Clinton ad oggi è niente più che una perdente di successo. Ancora pesa la clamorosa sconfitta, contro ogni pronostico, del 2016; pare che i Clinton, soprattutto Bill, siano diventati ospiti sgraditi nel corso del’ultima campagna elettorale, in cui si cercava di non far assolutamente incontrare specialmente i seguaci di #MeToo con il vecchio marpione dello Studio Ovale (nel ventennale dello scandalo Lewinski).
Inoltre, i giovani democratici non sarebbero disposti a farsi cannibalizzare dall’anziana donna di Stato e di potere, che potrebbe far perdere consenso proprio tra quelle “fasce deboli” dell’elettorato faticosamente riconquistate a suon di comizi nelle grandi aree urbane (mentre gli Stati Uniti rurali continuano ad essere feudo trumpiano, per cui non si capisce come la Clinton potrebbe conquistarli, stavolta più che nel 2016).
Per il resto, a contendersi la potenziale candidatura restano sempre i soliti volti un po’ tristemente già noti, vale a dire Bernie Sanders, che vuol fare ancora il “socialista” in un partito che non ha mai capito se possa permettersi di tendere davvero alla “sinistra” o solo a una versione più spinta e progressista del classico “liberal“, e Joe Biden, il vice di Obama, che in realtà non ha mai scaldato più di tanto né i cuori né i consensi.
Il Washington Post parla apertamente della necessità, per i democratici, di evitare di ripetere gli errori del 2016, in quella che, nel 2021, sarà ancora l’America di Trump. In sostanza, questo bilancio del Midterm ha reso ancora più confuso non solo il quadro attuale, ma anche la prospettiva di breve termine.
Se la risposta a Trump e a quello che rappresenta dovesse cominciare adesso con i giovani multietnici, per poi finire nel 2021 con il vecchio establishment di nuovo al timone, chissà se anche questa volta la nave statunitense non finisca alla deriva nel mare in tempesta del populismo sovranista.
Ludovico Maremonti