“Il cyberpunk è morto, viva il cyberpunk!”
Questa frase potrebbe essere la risposta di routine a tutte quelle persone che, con una puntualità svizzera, si affrettano a sentenziare la morte di un genere che da una buona quarantina d’anni sembra non voler sloggiare dall’immaginario comune, nonostante sia dato per spacciato e sotterrato ciclicamente un anno sì e l’altro pure. Un genere, quello cyberpunk, che ha vissuto da poco conclamati fallimenti di pubblico o di critica (sì: si parla proprio del videogame “Cyberpunk 2077”, da cui “Cyberpunk: Edgerunners” prende il via come spin-off animato) che hanno rischiato di distruggerne definitivamente ogni tentativo di revival. Se a ciò aggiungiamo la segmentazione vertiginosa di generi e sottogeneri cui ha dato vita (basta un’occhiata alla pagina Wikipedia per avere una minima idea della complessità) diventa ancora più difficile definire in qualche modo cosa sia oggi il cyberpunk. Eppure sembra impossibile abbatterlo: il cyberpunk riesce comunque sempre a risollevare la testa, a far parlare di sé, a spargere in circolazione nuove storie. Non vuole sloggiare. Non ha intenzione di farlo a breve.

Cyberpunk: Edgerunners nasce proprio come spin-off animato del videogame Cyberpunk 2077, uscito nel 2020 per la polacca CD Project RED (gli stessi creatori dello splendido “The Witcher 3: Wild Hunt”). È un dato di fatto abbastanza risaputo tra gli appassionati di videogame che Cyberpunk 2077 è stato, per usare un eufemismo, un fallimento epocale: le aspettative altissime dei videogiocatori, alimentate dalle dichiarazioni altisonanti della stessa CD Project – e dalla stima pregressa dovuta a The Witcher 3 – hanno portato l’hype nei confronti del progetto openworld ambientato in un mondo (come da titolo) cyberpunk ad altezze siderali, rendendolo uno dei più attesi di sempre.
Il problema è che Cyberpunk 2077 sin dalla sua uscita non si è dimostrato all’altezza di quelle aspettative. A dire il vero neanche di quelle più basilari: una marea di bug che rovinavano l’esperienza di gioco e l’ottimizzazione disastrosa per alcune console hanno fatto guadagnare al titolo una nomea infamante, in larga parte meritata, nonostante i vari aggiornamenti nei due anni successivi per metterci una pezza e una fanbase appassionata che comunque ha apprezzato l’opera di CD Project ignorandone i difetti.

Fonte immagine: https://www.cyberpunk.net/it/edgerunners

Due anni dopo il mondo di Night City con la sua forte caratterizzazione stilistica ha lasciato un segno indelebile: come universo narrativo Cyberpunk 2077 sembrava un ricettacolo di storie pronto a suggestionare l’immaginazione anche al di fuori del mondo videoludico in cui aveva, per molti, fallito. Edgerunners parte proprio da qui: da Night City, e dalla storia di crescita di David Martinez, un ragazzo di diciassette anni che insieme alla madre cerca di sbarcare il lunario nella spietata città fino a quando David non si ritrova orfano, decidendo infine di impiantarsi il Sandevistan: un dispositivo militare, illegale per i civili, ma che lo porterà ad avere più chance di sopravvivenza nei bassifondi di Night City. O almeno così crede…

La Night City che vediamo in Cyberpunk: Edgerunners è proprio quella che chi ha giocato al videogame originale ha imparato a conoscere ed amare. Per tutti gli altri sarà comunque un piacere, almeno inizialmente, immergersi nelle atmosfere fortemente stilizzate di un anime che conferma l’interesse che Netflix sta avendo per progetti di animazione nell’ultimo periodo (la notizia della vittoria di “Arcane” agli Emmy ha sorpreso pochi).
C’è un motivo di interesse ulteriore per dare una chance a Cyberpunk: Edgerunners: infatti ad occuparsi dell’animazione è lo Studio Trigger, sinonimo di qualità per chi ama l’animazione giapponese (Kill is Kill, Promare) e che si dimostra all’altezza del proprio compito visto che il comparto tecnico è eccellente, con una regia dinamica di Hiroyuki Imaishi e una colonna sonora eclettica di Akira Yamaoika. Ciò che colpisce in negativo purtroppo è un po’ tutto il resto.

La parabola di David Martinez, che si unisce ben presto a un gruppo di mercenari nella giungla urbana e di cemento che è Night City, resta confinata in dieci episodi canonici della durata di circa 25 minuti ciascuno, con uno sviluppo sin troppo didascalico che sin dall’inizio non si tira indietro di fronte all’azione – non c’è un solo episodio “noioso” in tal senso.
Il grande problema di Cyberpunk: Edgerunners è proprio la fretta con cui questa storia viene sviluppata, lasciando grossi dubbi sulla caratterizzazione della maggior parte dei personaggi sia principali che secondari (a parte David e Maine) e sull’introduzione dei villain principali, quando ormai è troppo tardi per considerarli davvero tali, nell’ultima manciata di episodi. È come se le sceneggiature di Masahiko Otsuka e Yoshiki Usa non abbiano tempo di respirare, e d’altra parte i dialoghi più riflessivi, che pure non mancano, hanno un tono malinconico che si adatta alla perfezione con il tono generale dell’anime: peccato però non abbiano la minima profondità. È una ambivalenza grottesca: da un lato la miniserie non si tira indietro nel mostrare la violenza, tra arti che esplodono, sangue a secchiate e connubi disturbanti tra carne umana e tecnologia; dall’altro questa maturità visiva – che è più un utilizzo stereotipato dei tipici stilemi tipici del cyberpunk, anche se mai compiaciuto – non viene confermata nei toni, e anzi viene banalizzata in dialoghi che non hanno la minima profondità, e purtroppo così ingenui o piatti da sfiorare l’ala della stupidità.

Ma soprattutto il peccato imperdonabile della serie sta nell’usare Night City solo come uno specchietto per le allodole: difatti la città di Cyberpunk 2077 è un luogo straordinario, stratificato e vivo, che in Edgerunners si limita ad essere uno sfondo di cartapesta, mai vera parte attiva della vicenda: né nella sua topografia, né nelle storie che potrebbe anche solo accennare – basterebbero solo quelle a restituire un fascino che, al di là del riconoscimento di determinate ambientazioni ai videogiocatori fedeli, purtroppo latita ben presto.
L’intera storia è in fondo un frullato convenzionale di ciò che ha reso il cyberpunk famoso: c’è il connubio tra essere umano e macchina con impianti bellici innestati clandestinamente, ci sono le zaibatsu (le mega-corporation asiatiche che già in “Neuromancer” estendevano il loro potere attraverso il globo), le realtà virtuali alla “Snowcrash” e la realtà quotidiana in palazzoni fatiscenti e sporchi, la pervasività del denaro in un mondo dove tutto, dal sesso al respirare, ha un prezzo, e la disperazione di un protagonista ribelle che ha poca scelta e tantissima disperazione in sé. Ma non basta un’ottima palette cromatica – e temi rimasticati a dovere – per svettare.

Fonte immagine:https://polygamia.pl/cyberpunk-edgerunners-najnowszy-trailer-ujawnia-bohaterow,6797010037795808a

Tutto ciò che ci affascina in Cyberpunk: Edgerunners, al di là delle animazioni dello studio Trigger, è certamente un residuo, una scoria di temi e visioni già visti altrove. Il merito sta nella potenza mitopoietica di quel futuro ormai passato teorizzato da Gibson, Sterling, Stephenson e soci, e mostratoci con impatto visivo indimenticabile da Otomo, Scott, Tsukamoto, Oshii e compagni: visionari che hanno plasmato i nostri sogni (e incubi) al punto che il cyberpunk in quanto tale è diventato in molti di noi una sorta di innesto cerebrale. Forse l’ironia della sorte è anche questa: il cyberpunk, che da movimento anti-sistema e avanguardista viene fagocitato dalla cultura pop diventando un marchio esso stesso, oramai infesta le nostre coscienze come un ennesimo prodotto da consumare, feticizzare e idolatrare acriticamente nella società collassata che racconta e che in parte è diventata quella che profetizzava con uno spleen decadentista: alienata, feroce, preda dei grandi monopoli. È una contraddizione con cui bisogna fare i conti.
Escono in questi anni antologie cyberpunk per Mondadori (cavalcando l’estetica di Cyberpunk 2077 già dalla copertina), e nella prefazione Roger Sterling ricorda l’avamposto di “anarchici cibernetici” nella Milano degli anni ’80 che i libri cyberpunk li piratavano e forse mai si sarebbero aspettati di vedere antologie di lusso uscire sugli scaffali a opera di un colosso editoriale italiano una trentina d’anni dopo. Proprio all’interno di questa contraddizione il cyberpunk si è fatto anche mito, pronto ad essere riutilizzato all’occorrenza e a dare nuove spinte immaginative a chi sa coglierle.
Il vero rammarico in Edgerunners sta dunque nelle potenzialità non sfruttate di nuove storie che potrebbero ambire ad altro che ad essere delle riproposizioni un tantino più aggiornate stilisticamente di Ghost in the Shell.
Il fascino c’è ancora, la fiamma non è spenta, il cyberpunk è ancora vivo e come uno spettro si aggira per il mondo, zaibatsu permettendo. Ma il suo valore sovversivo è purtroppo un lumicino.

Nicola Laurenza

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