Il 30 luglio del 1976 nasce al Quirinale il governo Andreotti III. È il “governo della non sfiducia”: il PCI offre sostegno esterno alla DC e torna nell’orbita della maggioranza dopo oltre trent’anni. Erano altri tempi e altri uomini, che però forse andrebbero valutati senza vene nostalgiche: erano pur sempre i tempi del manuale Cencelli per le spartizioni di potere, e di un Presidente del Consiglio poi riconosciuto colpevole (ma non condannato per sopraggiunta prescrizione) di associazione a delinquere per rapporti con la mafia. La scelta di Andreotti, insomma, non fu certo segno di “discontinuità” come quella che avrebbe dovuto segnare l’ascesa del PCI a partito fondamentale per gli equilibri della maggioranza. Forse, però, la discontinuità è altro rispetto ad una semplice questione di nomi. Ed è anche per questo che oggi, quasi 45 anni dopo, il PD dovrebbe accettare senza riserve di formare un governo con il M5S. Proverò a spiegarvene le ragioni.
Governo PD – M5S: perché il Paese è la cosa più importante
La legislatura in corso rischia di essere una delle più insidiose della storia della Repubblica: il governo gialloverde finora in carica ha già approvato provvedimenti che vanno a ledere fortemente i diritti di cittadini, migranti e non solo (i decreti Sicurezza su tutti); e all’orizzonte c’è l’elezione del successore di Mattarella (2022) e una legge elettorale fortemente sbilanciata, da cambiare, che potrebbe dare al centrodestra unito, in caso di elezioni, la possibilità di cambiare la Costituzione da solo. Gli unici due partiti che potrebbero impedire tutto questo sono, appunto, i due che oggi stanno trattando. Non è una semplice assunzione di responsabilità: è fermare una pericolosa deriva antidemocratica.
E a proposito di deriva antidemocratica: un ministro che si difende “dai processi e non nei processi” non è una cosa accettabile in un Paese civile, a maggior ragione se a finire sotto la lente della giustizia è il suo operato politico. Il voto per negare l’autorizzazione a procedere sul caso Diciotti è stato forse l’atto di massima codardia del Movimento 5 Stelle durante i 14 mesi di governo con la Lega, giustamente punito poi nelle urne europee. La garanzia che un voto del genere non si ripeta sarebbe un altro piccolo passo verso il ripristino degli equilibri costituzionali, ad assicurare il rispetto di quel motto che riecheggia nelle aule dei tribunali, e che ancora chiede vendetta: “La legge è uguale per tutti”.
Per mettere il Movimento davanti a se stesso e alle sue responsabilità
Sei anni fa il Movimento 5 Stelle candidava alla Presidenza della Repubblica Gino Strada e Stefano Rodotà. Oggi è reduce da un’esperienza di governo con il partito più a destra della storia repubblicana. Riportare il Movimento 5 Stelle nell’alveo ideologico del centrosinistra deve essere una priorità per chiunque abbia una visione a lungo termine degli equilibri politici italiani: le Europee insegnano che riconoscersi come unico argine a Salvini può anche portare un lieve aumento dei consensi, in cambio però della legittimazione di un sistema binario che favorisce un partito in ascesa come la Lega (e come il centrodestra nel complesso, a livello europeo se non mondiale). Costruirsi un nemico per poi perderne il controllo.
Crearsi un interlocutore più o meno affidabile all’interno del Parlamento, silenziare per un po’ la propaganda pentastellata che tanto male ha fatto al PD, anche ingiustamente (vedi Bibbiano) e allontanare il Movimento dalla “sfera d’influenza” della Lega è un compito fondamentale per ricostruire un campo, stavolta sì, largo di centrosinistra che sappia “dire qualcosa di sinistra”, come direbbe qualcuno che ho citato fin troppe volte. E inoltre potrebbe sparigliare le carte nello stesso Movimento: come reagirà la fronda di destra del M5S (i Paragone per fare un esempio) ad un governo col tanto vituperato PD?
In uno strano momento di semi-lucidità Berlusconi ha definito il governo nascituro come “il governo più a sinistra della storia della Repubblica”. Non è del tutto vero, considerato che ci sono stati esecutivi con Rifondazione Comunista in maggioranza; eppure, il governo PD – M5S potrebbe essere il governo di centrosinistra più lineare, questo sì, che la storia ricordi. Tutti i governi di centrosinistra post-Tangentopoli sono stati retti da non meno di sei partiti, piccoli o grandi che fossero. Stavolta invece ci sarebbero solo due compagini da far andare d’accordo, pur con tutte le correnti interne del PD (mai da sottovalutare in quanto ad autolesionismo) e i probabili malumori dei parlamentari M5S; e uniti inoltre da un programma già stabilito per grandi linee all’atto di nascita. L’inizio di una nuova stagione?
Perché la differenza la fanno i programmi e non i nomi
Per tornare all’esempio iniziale, il segretario della DC Zaccagnini dichiarò, alla vigilia delle consultazioni del ’76: «La DC è disponibile a incontri per la definizione del programma economico con il PCI, con le forze sociali, sindacati operai e associazioni imprenditoriali, ma non a un governo con la partecipazione o il concorso del PCI». Quello che oggi chiameremmo un veto o un diktat. Ma una forza politica lungimirante come quel PCI (stavolta sì, detto con nostalgia) era in grado di imporre il proprio programma perfino senza partecipare con propri ministri al governo. Come a dire: il problema non è la persona-Conte, ma il politico-Conte. E un Conte che accetta tutti i punti del programma di governo tra PD e M5S (compreso smontare i provvedimenti del suo primo governo ritenuti sbagliati, a lui poi salvare la sua coerenza…) non può che andare bene, se è davvero il prezzo da pagare per far nascere questo governo.
E poi il programma. Siamo sicuri che PD e M5S siano così distanti e non possano invece trovare parecchi punti in comune per il loro governo? A partire dall’ambiente, tema menzionato da Conte nel suo discorso al Senato e, almeno all’apparenza, in cima alle priorità del PD di Zingaretti. Per poi proseguire verso una maggiore attenzione ai diritti sociali (miglioramento del Reddito di Cittadinanza e introduzione del salario minimo), ai diritti civili e alla “nuova stagione di investimenti” auspicata dal PD e che toglierebbe al M5S l’etichetta di “partito del No” formatasi durante il governo con la Lega.
Un ultimo appunto: ho spesso definito, durante l’esperienza gialloverde, il Movimento 5 Stelle come una “lavatrice”: in grado di proiettare quell’aura di onestà di cui si fregia da sempre sul proprio alleato di governo. In grado perfino di far passare la Lega di Salvini, lo stesso partito dei diamanti in Tanzania, dei 49 milioni, dei Siri, dei Rixi, del Russiagate etc. (e vado a memoria) come una forza nuova (giuro che il gioco di parole è involontario) e politicamente “vergine”. Il PD si presenta ad oggi come un partito stanco, appesantito da 12 anni di esistenza durante i quali ha governato praticamente tutto quello che c’era da governare e rimanendo invischiato anch’esso negli, inevitabili a questi livelli, scandali. Sicuri che un lavaggio non faccia bene?
Simone Martuscelli