Non tutte le strade portano a Roma o, meglio, ai romani. Dopo circa tre decenni di ricerche e studi interdisciplinari, la troupe di archeologi di Stéphen Rostain ha riportato alla luce un vero e proprio eldorado di città collegate da strade, piazze e zone agricole, tra i più grandi e, soprattutto, più antichi in Amazzonia. Si tratta degli insediamenti del popolo Upano, una società finora sconosciuta che si sarebbe sviluppata negli stessi anni in cui in Europa si facevano largo gli antichi romani.
Per anni e anni abbiamo studiato la storia del grande Impero Romano, una struttura organizzativa così vasta e potente, attorno alla quale hanno preso vita mitologie e vane ideologie. Dalla fondazione di Roma nel 753 a.C. gli antichi romani si sarebbero espansi per tutto il vecchio continente, esplorando, saccheggiando e conquistando paesi e intere nazioni. E per secoli, come l’Impero Romano non c’era stato altro popolo. Con l’aiuto delle tecnologie moderne si sta tuttavia cominciando a riscrivere la storia, quella storia sgorgata dalla penna dei vincitori, degli europei, che ha lasciato poche pagine libere a tutti quei popoli definiti “indigeni” e, di conseguenza, intrinsecamente “arretrati”.
Non ci sorprende allora che solo in epoca relativamente recente la ricerca ha cominciato a prendere in esame porzioni più ampie di territorio, arrivando fino alle zone più remote e impenetrabili del nuovo continente. Recentemente sono stati scoperti i complessi sistemi urbanistici dei Maya in Messico e Guatemala, l’anno scorso è stata ritrovata una città Maya nascosta, Ocomtún – letteralmente “colonna di pietra” -, e anche il 2024 non sembra deludere in termini di scoperte importanti. A metà gennaio la rivista Science documenta infatti la scoperta dell’archeologo francese Stéphen Rostain e il suo gruppo: grazie alle tecnologie moderne, che hanno permesso di mappare una vasta area del sottosuolo amazzonico, è stato portato alla luce un fitto e intricato tessuto di strade e città sotto gli arbusti e le boschive della foresta Amazzonica, tra i più complessi e articolati mai trovati, risalenti a circa 2500 anni fa.
Le ricerche del gruppo di archeologi nel polmone verde sono iniziate verso la fine degli anni ’90 e inizialmente erano concentrate nei due siti di Sangay e Kilamope, nei quali erano stati rinvenuti antichi manufatti di ceramica. Dal 2015 gli studi hanno avuto una svolta grazie soprattutto all’utilizzo del LIDAR, uno strumento a tecnologia laser in grado di rilevare la presenza di strutture umane in profondità e sotto fitte boscaglie.
I risultati emersi evidenziano che i siti finora studiati non erano realtà isolate, bensì un complesso di circa 300 chilometri quadrati di abitazioni, strutture religiose, il tutto ben connesso da strade lunghe fino a 20 chilometri, piazze e campi coltivati. Le popolazioni che abitavano queste zone avrebbero inoltre, intorno al 500-300 a.C., cominciato a costruire tumuli e a stabilire le abitazioni su larghe piattaforme di terra, per un totale di oltre 6.000 piattaforme rilevate dai dati LIDAR nel territorio preso in esame. Questi insediamenti sembrerebbero essere un esempio di “urbanismo giardino”, un modello molto avanzato di urbanizzazione di popoli contemporanei ai romani e di cui finora non si aveva la minima conoscenza.
La scoperta è estremamente importante non solo perché permette di avere un quadro più completo di quella che è la storia del mondo, ma soprattutto conferma che i popoli dell’Amazzonia non erano necessariamente nomadi, in costante spostamento per cercare cibo, anzi la varietà e la complessità delle strutture cittadine ritrovate permette di ricostruire stati avanzati di civilizzazione.
Per secoli le culture delle regioni del centro e sud America, sono state, e spesso sono ancora oggi, considerate “arretrate”, “indigene”, perché messe a confronto con la “sviluppata” civiltà occidentale. L’eurocentrismo ha infatti escluso dalla storia molti territori e, di conseguenza, molti popoli, trascinandosi dietro pregiudizi e percezioni del mondo e della storia alterati. Ed è anche questo il motivo per cui pensare ad una civiltà sviluppata contemporanea a quella dell’Impero Romano fuori dai confini del “vecchio continente” sembrava, fino a non troppo tempo fa, una sceneggiatura da degno Indiana Jones.
Quanti altri segreti si nascondono sotto al polmone verde, quante verità verranno portate a galla e quanti orizzonti sono ancora da scoprire. Gli studi e le ricerche nell’ambito, anche se molto lente, sono una vera e propria risorsa per conoscere la propria storia attraverso quella degli altri, attraverso l’incontro con l’alterità. Infatti, come ci insegna Massimo Canevacci, anche se spesso ci si chiude a riccio nelle proprie certezze e ci si circonda di ciò che ci è affine, è attraverso l’incontro con “l’altro” che (ri)conosciamo la “nostra” identità, perché è “di fronte alla meraviglia dello sconosciuto, di ciò che è ignoto e che pur desideriamo incontrare. In questo momento la mia corporalità diventa porosa, cioè disponibile a farsi attraversare dall’alterità. E così mi dispongo verso il mutamento attraverso la mia porosità stupita”.
Nunzia Tortorella