Si può uscire, come d’incanto, dal vicolo cieco in cui la contrapposizione storica tra due formazioni politiche (e non solo politiche) ha incastrato il movimento per la rivendicazione dei diritti della Palestina, proponendo un’alternativa che abbia per paradigma proprio la protezione e la promozione di quei diritti? Può assumere credibilità, nel 2019, un modello di Sinistra palestinese che, nella crisi delle Sinistre mondiali, si incarichi di risolvere (e auspicabilmente lo faccia) una delle più tragiche questioni geopolitiche della storia, talmente consolidata ed eternamente ricorrente, da essere stata ormai quasi “dimenticata”?
La nascita della Sinistra palestinese
La cronaca politica in arrivo dalla Palestina nei primi giorni dell’anno consentirebbe di rispondere alle precedenti domande in maniera affermativa. A inizio gennaio, infatti, i portavoce di un nuovo movimento collocabile nella Sinistra palestinese hanno annunciato la nascita di una “coalizione” in grado di proporsi come terzo polo politico, per ora alle spalle degli storici, famosi partiti/fazioni di Fatah e Hamas, ma con l’ambizione di crescere fino a minarne la posizione privilegiata.
Di questa nuova “Unione Democratica” (così si è scelto di chiamare il neonato soggetto politico) la prima cosa che balza all’occhio è proprio il nome: niente riferimenti “facili” alla tradizione del pensiero socialista o comunista, solo quell’accostamento di concetti evocativi di “unità” e “democrazia” che caratterizzano per la verità un intero, nuovo manifesto politico.
In effetti, leggendo le dichiarazioni dei leader del nuovo partito, riportate dai – pochi, per la verità – media internazionali (tra cui in primo piano c’è il Manifesto), il leit motiv è immediato e semplice: visto che Israele nega spesso il godimento dei diritti fondamentali ai palestinesi, è sul quel tasto che bisogna battere per creare un’opposizione consapevole e credibile a Israele stesso. Non si tratta, o non si tratta più, di combattere una guerra territoriale: si tratta di lottare per l’accesso ai diritti alla vita, alla libertà di pensiero, stampa ed espressione, alle prestazioni sanitarie, all’istruzione e alle pari opportunità.
Si tratta, cioè, di promuovere tutti quei temi che a Fatah e Hamas sono pian piano sfuggiti, durante la sedimentazione dei loro violenti canoni di lotta politica, che ormai non pagano più.
Fatah contro Hamas: la decadenza della lotta politica palestinese
Sono anni infatti che Fatah e Hamas, per quanto ognuna costretta nel claustrofobico microcosmo dei Territori Palestinesi, sembrano essere occupati “solo” a farsi la guerra, all’interno dell’eterna guerra (più o meno aperta, più o meno dichiarata, più o meno efferata e più o meno combattuta, tra razzi, pietre, politica e diplomazia) della Palestina contro Israele.
I due movimenti/partiti più organizzati e istituzionalizzati del panorama palestinese pare abbiano quasi rinunciato a lavorare per la Palestina del terzo millennio, al punto che vale la pena chiedersi cosa essa sia diventata oggi – un’entità politica sovrana o nn soggetto autonomo creato a tavolino da un accordo internazionale ormai vetusto (il famoso Accordo di Oslo del 1993)? Più probabilmente, solo un contenitore vuoto di senso, ma pieno di sofferenza e risentimento per il piccolo, eterno nemico israeliano con gli “amici” grandi e potenti. Fatah e Hamas si sono ridotti spesso a consumare una rivalità lontana dalle loro stesse, apparenti (o sbandierate) aspirazioni, con conseguenze tangibili e drammatiche sulla popolazione che, in modi diversi, rappresentano.
Fatah è il partito “in giacca e cravatta”, Hamas quello della preghiera islamica e della lotta armata. Entrambi hanno una “giurisdizione” propria, rispettivamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Entrambi esercitano tale “giurisdizione” con pretesa di esclusività: vale a dire che, come successo recentemente con alcuni dipendenti amministrativi facenti capo all’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Abu Mazen, storico leader di Fatah, intrappolati a Gaza e vessati dalle autorità di Hamas sotto il profilo professionale e umano, entrambe cercano di rendere la vita difficile agli avversari.
Così, sgarri e rivalità hanno progressivamente corroso il panorama politico palestinese, compromettendo l’affidabilità di chi si propone, nell’una e nell’altra fazione, come negoziatore e delegittimandolo agli occhi della comunità internazionale, di fatto facendo il gioco della destra di governo israeliana.
La Sinistra Palestinese: dalla marginalità alla possibile alternativa
Quella accennata sembrerebbe una situazione senza uscita: difficile scalzare delle formazioni politiche che, insieme, arrivano storicamente (per quanto gli ultimi dati ufficiali risalgano alla consultazione elettorale del 2006) a coprire circa l’85% dei consensi. Tuttavia, a chi apparteneva, e si può ritenere che appartenga oggi, mentre si riscontra un deluso, progressivo allontanamento dei palestinesi dalla politica, quel 15% residuo di consensi? Apparteneva, e forse appartiene ancora, a quella piccola costellazione di più o meno cinque partiti di sinistra, di differente ispirazione, tra marxisti e socialisti riformisti, oggi coalizzati nell’Unione Democratica.
Considerate le differenti impostazioni di ciascun partito (tra più o meno rivoluzionari e non), il problema fondamentale della Sinistra palestinese è sempre stato (ritornello evidentemente di portata mondiale) l’estrema frammentazione, al di là delle premesse ideologiche e finalistiche simili: attenzione ai diritti del popolo dei Territori, attraverso la presa di coscienza di un “proletariato” (parola mitica e forse oggi anche un po’ vuota di senso, se non altro perché l’estrema povertà palestinese oggi autorizzerebbe al più a parlare di “sottoproletariato”) in grado di imprimere una svolta decisa alla Questione palestinese come “questione politica”, prima che geopolitica.
Dunque, la Sinistra palestinese, per emergere dalla marginalità in cui le vicende mediorientali e la spartizione del potere tra Fatah e Hamas l’avevano confinata (alzi la mano chi ha mai sentito parlare sui media globali, negli ultimi dieci anni, di almeno una delle cinque sigle di sinistra, a partire da quella più storica e importante, il Fronte Popolare di Liberazione per la Palestina – FPLP), doveva uscire dall’inconcludenza determinata dalla storica divisione. Apparentemente, con la nuova Unione, l’impresa sembra riuscita.
L’Unione Democratica come riscossa della Sinistra palestinese e dell’intera Questione mediorientale?
In effetti, c’era già l’Unione Democratica dietro alcune manifestazioni a Gaza e Ramallah, pochi giorni fa: l’invito alla mobilitazione contro la divisione interna che lacera la Palestina è stata accolto da centinaia di persone, in due eventi simultanei nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, i “feudi” delle formazioni politiche di riferimento. Si è trattato quindi di una prima dimostrazione di forza non certo indifferente, considerata la recentissima origine della nuova Unione della Sinistra palestinese.
Sembra che i dirigenti della Sinistra palestinese abbiano puntato a colmare il vuoto della “politica” storica, che ha lasciato i “civili” e le loro case, villaggi, scuole e ospedali vittime impotenti della forza militare e persino dello “Stato di diritto” israeliano (è di pochi giorni fa la decisione della Corte Suprema israeliana sulla conferma della demolizione di un insediamento palestinese nei pressi di Gerusalemme est).
La crescita dell’Unione Democratica dipenderà così dalla capacità di attrarre gli scontenti e i delusi, prima che la rassegnazione e la disillusione se ne impadroniscano e che magari il ritorno alla violenza diventi di nuovo l’unico metodo di reazione, con conseguenze sulla stabilità e sicurezza di tutta l’area.
Il “terzo polo” può diventare strumento di cambiamento per l’intera Questione palestinese, a patto che rimanga fedele ai propri presupposti programmatici. Il rischio, comune alle sinistre in tanti contesti internazionali, è sempre quello della divisione sui temi ideologici (la coabitazione tra marxisti e riformisti, già complicata, incredibilmente quanto forse inutilmente, persino nei contesti di democrazie avanzate, è tutta da verificare): per quanto, se l’idea è quella di accrescere il consenso intorno alla Sinistra palestinese sulla base dell’attenzione alla lotta per i diritti fondamentali, non dovrebbe esserci divisione che tenga.
Ludovico Maremonti