La recente politica adottata da Donald Trump in materia di aborto ha catalizzato l’attenzione dei pro-choice più di ogni altra iniziativa a sfavore della libertà di scelta.

La risonanza mediatica ha rifocillato un interrogativo ingordo e solo in apparenza denutrito: se sia giusto, morale, etico abortire.
Un interrogativo che, presto o tardi, assilla tutti, finanche coloro certi di possederla già, la risposta.

«Continuavo solo per impegno civile, per coerenza. Qualcuno doveva fare il lavoro sporco e io ero uno di quelli e lo sono ancora. É come per un soldato andare in guerra. Se lo Stato decide che si deve partire ci dev’essere chi parte».

Queste sono parole del medico non obiettore Massimo Segato riportate il 22 novembre 2016 sul Corriere della Sera. Il medico dà voce agli aspetti più duri della professione scelta ed esercitata, e racconta di un errore: un’interruzione di gravidanza non riuscita, un bambino nato per caso, una vita salva. Un errore che viene descritto come il «più bello» della propria vita.

Aborto come sinonimo di aberrazione e aborto come sinonimo di diritto: una dialettica dai contorni sempre più sfocati, feroci, ingiusti.

Dinanzi a confessioni come quella edita sul Corriere, la strada di chi vede giusta l’identità aborto-diritto si tramuta d’improvviso in una palude buia, silenziosa, rischiosa da affrontare. L’istinto è quello di arrestare il passo e fare marcia indietro – fuggire.

Fuggire dall’interrogativo: un aborto è un assassinio? La donna che sceglie di abortire e il medico che pratica l’interruzione volontaria di gravidanza sono assassini?

Leggendo la testimonianza del dottor Segato, che narra della nascita inaspettata di un bambino come conseguenza di un errore durante un’IVG, è istintivo rispondere “sì” a quesiti tanto scomodi. Ma sarebbe una risposta ingiusta, incompleta, chiazzata di fretta.

È certo che l’interruzione volontaria di gravidanza, più comunemente nota come aborto, non è una pratica felice né un’esperienza cui ambire – «Non ne ho mai vista una felice del suo aborto», afferma Segato in riferimento alle «mamme» che hanno abortito.
Difatti, è difficile sia credere sia ipotizzare che una donna desideri abortire o che immagini di potersi ritrovare un giorno nella condizione di doverlo fare.

Eppure “il corpo è mio e lo gestisco io”, eppure l’aborto per tante donne è un diritto. Un diritto che la società civile ha l’obbligo di garantire e tutelare.

Un diritto che dà all’individuo l’opportunità di scegliere, e la libertà di scelta è forse la libertà più grande concessa all’essere umano, l’unica in grado di renderci davvero liberi e padroni della nostra esistenza: chi è veramente libero di scegliere è per forza di cose libero di pensare e di esprimersi – libero di vivere. E l’interruzione volontaria di gravidanza rappresenta questo tipo di diritto: consente di operare una scelta laddove vi sarebbe un percorso senza sbocchi secondari.

Si potrebbe obiettare che in questo specifico caso la libertà di scelta sia in realtà espressione di egoismo, perché dalla scelta in questione dipende una vita. Ed è a questa obiezione che subentra la palude buia, silenziosa, rischiosa da affrontare: tra la libertà e la vita cos’è che conta di più?
Il paradosso è che le due alternative si sintetizzano in un’unica opzione: la libertà è vita e la vita è tale solo se libera. Una società civile non può obbligare una donna alla maternità se la donna in questione non è nella condizione fisica e psicologica adatta a renderla madre – la maternità non è né un diritto né un dovere, è una scelta.

Una donna incinta a seguito di uno stupro sarà in grado di convivere con il frutto della violenza? E se non lo fosse, sarebbe condannabile?
Una donna affetta da una male incurabile e tuttavia in attesa di un bambino, se non volesse dare alla luce un orfano, sarebbe giudicabile?
Nello sventurato caso di futuri genitori cui viene strappata via la gioia perché il bambino, dicono loro, presenta delle malformazioni che non danno adito a speranze, chi sarebbe la società per giudicare un’eventuale scelta o un legislatore per imporla?

La legalizzazione dell’aborto si configura, dunque, come la possibilità di concedere a ognuno, nell’intimità delle proprie esperienze di vita, la libertà di scegliere come agire.

È probabile che nessuna delle donne immaginarie sopracitate ricorra all’aborto: sarà stata una scelta consapevole e voluta, meritevole di rispetto e intrisa di valore.
Riconoscere le infinite vicissitudini della vita umana e accettare l’idea di non essere in possesso di una verità universalmente valida è l’impronta più tangibile di una società civile.

La possibilità di ricorrere all’aborto – che, per inciso, non è mai una felice scappatoia – è parte integrante di questa impronta: affinché una donna sia lasciata libera di vivere, affinché la maternità sia rispettata in ogni suo aspetto, affinché tutte le esperienze di vita, soprattutto le più dolorose e spesso trascurate, trovino tutela negli strumenti di legge.

Rosa Ciglio

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