25 novembre patriarcato
Foto di Sara C. Santoriello (corteo Non Una di Meno @ Roma - 23 novembre 2024)

Caro ministro Valditara, le assicuro che “patriarcato” è una parola che non gode delle nostre simpatie, sebbene ci accompagni dalla culla alla tomba. Va insegnata per poterne prendere le distanze. Negandola dimostra di peccare sia di formazione che di lungimiranza.

Lei ha affermato che il patriarcato è finito con la Riforma del Diritto di famiglia del 1975, sostituto «alla famiglia fondata sulla gerarchia, la famiglia fondata sulla eguaglianza». Lo spieghi alle infermiere della regione Lazio a cui è stato notificato che avrebbero firmato il contratto a tempo indeterminato soltanto a conclusione della gravidanza. La maternità è un impedimento all’assunzione, la domanda trabocchetto a ogni colloquio che sosteniamo. Le hanno mai chiesto, nell’arco della sua intera vita, di differire – mettere in pausa – un incarico che le spetta, in attesa di portare a compimento una scelta privata? Privata, esattamente come il suo opposto, di cui non possono discutere interlocutori “naturalmente” esclusi dalla decisione.

Pronunciamo Pa-triar-ca-to per ricordare che esistono discriminazioni motivate da ragioni biologiche. Si immagini nascere avendo, per il solo fatto di esistere, una tassa da pagare a cadenza mensile per 40 anni, ulteriore e non alternativa a quella del mutuo e a qualsiasi altro bene di consumo. Il Governo di cui fa parte ha aumentato l’IVA sui prodotti mestruali nella legge di bilancio 2024 dal 5 al 10%, retrocedendo sul piano della povertà mestruale (period poverty). In teoria dal 1992 sono garantite per legge le pari opportunità economiche, ma a volte la legge è lettera morta quando non sostenuta dai fatti. Se i conti ancora non tornano, detragga dalla busta paga il 30% dello stipendio di un nostro pari, l’equivalente a cui ammonta la disparità salariale. 87 su 146 è la posizione dell’Italia nel Global Gender Gap Report 2024.

Il 25 novembre è il giorno più doloroso dell’anno e non urliamo “Patriarcato” per masochismo. Chiare sono le cause, inconfutabili gli artefici. Nel suo intervento sostiene che il femminicidio è stato «frutto di una concezione proprietaria della donna, in specie in famiglia»; una definizione che potrebbe anche essere corretta, se non fosse per i tempi al passato che usa e lo slittamento delle responsabilità alla «grave immaturità narcisistica del maschio, che non sa sopportare i no». Ideologico è negare l’esistenza di un moto che ci è sfavorevole. Noi non vogliamo il riconoscimento di relazioni paritarie nel confinamento che gli uomini hanno assegnato. Ci fa ribrezzo sentir parlare un Riccardo Scamarcio qualsiasi in televisione del “gioco dei ruoli” con parti distinte, perché si è sempre fatto così. È insopportabile l’uguaglianza quando soltanto una delle parti detta le regole del gioco. Lo è l’atteggiamento di chiunque si senta legittimato a circuire cosa è donna, cosa significhi essere madre, chi è cittadinə e quale sia uno Stato. Vale per le donne come per tutte le identità invisibilizzate, costrette a fare i conti con l’accettazione e la solidarietà, con l’occhio assoluto del potere che premia e condanna in base al suo gusto. A scuola, però, abbiamo imparato che una vita degna è fatta di libertà inviolabili, che spettano agli esseri umani senza previo riconoscimento.

Nel 1994 deputate di ogni estrazione politica hanno abbracciato un progetto che le vedeva tutte indistintamente coinvolte. Nel 1996 entrava in vigore la legge contro la violenza sessuale, nel solco di ben cinque legislature dal disegno iniziale (art. 609 bis e segg. del Codice penale italiano). Fino al 1981, in Italia lo stupratore poteva sposare la vittima per eliminare il reato e un assassino aveva uno sconto di pena in caso di tradimento. Sono passati soltanto 30 anni da quando è stato riconosciuto il reato contro la persona e la punizione dello stupro (e la costrizione a compiere o subire atti sessuali) come congiunzione carnale non consensuale. Questa legge ha la mia età, ma lei che è più grande di me si ricorderà cosa accedeva nei tribunali fino a qualche anno prima. Per rifocillare la memoria, “Processo per stupro” è un documentario sulla vittimizzazione secondaria e risale al 1979, curato dalle registe Loredana Rotondo, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti e Anna Carin.

Patriarcato è cultura e prenderne le distanze è un obiettivo educativo. Decostruirsi, invece, è fare i conti con sé stessi, accettare la contraddizione per rimarginare la ferita. Significa che nessunə è intoccabile, né i luminari né i rivoluzionari. Lei dice che «non si può accettare la cultura della violenza», ma poi incolpa chi non può difendersi. La maggior parte delle violenze fisiche di cui parla non sono agite da sconosciuti o ignoti, bensì da affetti stabili, padri, parenti, fidanzati, colleghi e datori di lavoro, che siano essi arrabbiati, gelosi o invidiosi, incapaci di accettare il rifiuto e la volontà, giustificati per mezzo della cultura che li educa a non mettersi mai in discussione. Le parole pronunciate trovano tra i destinatari la famiglia Cecchettin, reduce da un processo che ha sancito la colpevolezza di un bravo ragazzo italiano.

Mentre lei e tutti i valorosi difensori della tradizione rinnegate l’evidente, le antichissime rivendicazioni delle nostre antenate riverberano nelle piazze gremite di persone. Ben due manifestazioni nazionali si sono tenute sabato scorso a Roma e Palermo in vista del 25 novembre. La nostra rabbia, Ministro, è la stessa che proveranno lə suə figliə e lə suə nipoti quando incontreranno il patriarcato lungo il percorso.

Sara C. Santoriello

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