“Aspettatevi sempre il peggio. Da tutti. […] Questa attività produce farabutti: sono la nostra principale merce d’esportazione. Io sono un farabutto. Anche voi, probabilmente, siete dei farabutti.”
(Anthony Bourdain – Kitchen Confidential, traduzione di Vitaliano, Veronese, Lavelli, pubblicato da Feltrinelli)
In “The Bear”, serie tv FX che da qualche giorno è disponibile anche in Italia su Disney+, noi italiani ci troviamo in un territorio familiare che non dovrebbe avere più segreti, o almeno così crediamo: la cucina.
Amiamo la cucina. Non solo per i peccati di gola, ma perché attribuiamo al cibo e alla sua preparazione qualcosa in più del meccanico mangiare per sfamarsi: la cucina è un universo con regole condivise, avamposto di una tradizione che ovunque sembra sparire – ma in cucina no, la tradizione sembra essere l’illusione di un baluardo che resiste…
“C” di Cucina, dunque: in un ipotetico dizionario dei luoghi comuni sull’Italia, scritto alla moda di Flaubert, alla voce ci sarebbe l’aggiunta “la migliore al mondo”. Ma Cucina da tempo va inteso anche come macchina di spettacolo e narrazione, di rivendicazioni politiche e lavorative, di tabù oltre – inevitabilmente – a luogo di conflitti dialettici mortali (un giro casuale su Facebook o Instagram può bastare per rendersi conto quanto gli italiani siano permalosi sulla tradizione culinaria e sulle diverse cucine regionali). Mai come in questi ultimi 15-20 anni l’esplosione di programmi televisivi dedicati alla cucina – e di canali tematici a seguito – è stata tanto onnipresente nella tv italiana. Poco conta che gran parte di questi programmi siano presi da format stranieri: “La prova del cuoco” (in onda ininterrottamente dal 2000 fino al 2020 su Rai Uno e sostituito da un programma che, titolo a parte, è praticamente lo stesso) deriva da “Ready Steady Cook” della BBC; e il più bel talent show italiano, “MasterChef Italia”, è sempre basato su un format della BBC. Accomuna i due programmi l’essere costruiti su coordinate completamente diverse dalla serie madre. Quando guardate Masterchef Italia avvertite la differenza rispetto a quello australiano, statunitense o inglese.
(E no, non centra nulla l’altro luogo comune degli inglesi che non sanno cucinare/mangiare bene.)
La premessa è doverosa per arrivare al punto: ovvero che “The Bear” non è solo una delle migliori serie tv ambientate nel mondo infernale delle cucine; è una delle serie migliori dell’anno, grazie al modo in cui si radica con forza sul territorio che fa da sfondo alla vicenda (Chicago) e a come racconta dei vari esseri umani che provano a restare a galla tra problemi economici, familiari o legali, migliorandosi e cercando di rendere il locale qualcosa di più che l’ennesimo ristorante di cibo locale. La storia è già sentita, potrebbe essere l’inizio di una puntata di “Cucine da incubo”: perché le cucine, come il cibo, sono dappertutto simili ma ovunque diverse, raccontando storie che hanno a che fare con famiglie, tradizioni, territorio e umanità.
Chicago non è in Italia, è ovvio, e una tipica famiglia di italoamericani del posto condivide molto meno di quel che possiamo aspettarci con una famiglia tipica italiana del Nord o del Sud, tradizione culinaria compresa. Eppure con “The bear” siamo a casa da subito. Il cibo è uno dei pochi linguaggi universali che non dovrebbero avere bisogno di traduzione. Riusciamo a capire tutti i sottintesi di una serie scritta senza imboccare lo spettatore (per usare un gioco di parole), così da non dargli subito tutti i retroscena ma preparando le portate in maniera metodica. Di questo però non ci rendiamo subito conto: il grosso del lavoro il creatore e sceneggiatore della serie Christopher Storer lo fa nascondendo la preparazione. Otto episodi di circa mezz’ora ciascuno dispiegano una vicenda adrenalinica ma anche stressante in cui il retroterra e i retroscena sono da afferrare al volo, tra un ordine e l’altro, tra padelle incendiate e tensioni clamorose.
In “The Bear” la storia è quella di Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White), ex giovane promessa mondiale della ristorazione che dopo il suicidio del fratello Michael decide di tornare a Chicago per dirigere il locale ricevuto in eredità, ovvero un piccolo bugigattolo dedito soprattutto alla preparazione di sandwich. Evitando il trauma più che affrontandolo, Carmy si ritrova a dover gestire una squadra formata da persone di tutte le età e con esperienze diverse: il che equivale a dire caratteri diversi, spesso completamente opposti, al punto che spesso la tensione si fa intollerabile ed esplode. Ogni personaggio è ben strutturato: non esistono buoni o cattivi; esistono delle dinamiche impazzite che, in un microcosmo quasi militaresco fatto di tempistiche logoranti, portano all’esaurimento e a quella che sembra – e a volte inevitabilmente lo è – violenza e sopruso. La serie rivela dunque il segreto di Pulcinella: cioé il caos dietro le porte dei ristoranti di serie C – così come quelli di serie A – mostrando come dinamiche del genere portino allo sviluppo di ulteriori traumi, assimilabili al disturbo da stress post-traumatico che di solito si attribuisce a gente andata in guerra. Ma se da un lato questo argomento è abbastanza scontato lo è di meno il modo in cui, finalmente, un protagonista chef non è solo il solito stronzo con attitudini dispotiche, ma un essere umano che è pronto a cedere, che cerca di trattare equamente la sua brigata, la sua aspirante sous chef, il cugino un po’ losco che tenta di tenere lontani gli spacciatori o un giovane pasticcere ambizioso. E Carmy fallirà, esploderà, urlerà, crollerà. Perché “The Bear” non è un talent show con vincitori che hanno un redemption arc perfettamente compiuto: è materia viva e dolorosa, vita tragicomicamente vera, come “Fleabag”.
E “The Bear” non è neanche impostato come un “Quattro ristoranti”: non è nelle sue corde far vedere come un ristorante di quart’ordine raggiungerà la sua prima stella Michelin o primeggerà sugli altri concorrenti. L’Original Beef of Chicagoland, il locale di famiglia che Carmy gestisce preparando perlopiù il tradizionale italian beef sandwich, non diventa di colpo un palazzo di cristallo grazie alla bacchetta magica dello chef talentuoso. Ciò che affascina della serie è che più gli episodi vanno avanti, più i traumi diventano voragini enormi e sembrano portare a un vicolo cieco. Già durante il secondo episodio il controllo di un ispettore sanitario bollerà il locale con un marchio infame. E andando avanti le cose non diventeranno certo migliori. È la vita bellezza, e tu non puoi farci niente.
La cucina è un mondo di saggezza brutale che, come la guerra, dà a ogni frase, ogni gesto e ogni azione un significato molto più netto, proprio perché cucina e campo di battaglia condividono uno spazio spietato, dove non c’è tempo di filosofare: un ordine sbagliato è un cliente perso proprio come un proiettile vagante può essere quello letale. È un mondo tribale quello della famiglia Berzatto e quello della cucina, dove gli esterni sono guardati con sospetto, spesso emarginati (il cognato Pete, ad esempio) e chi dall’interno non si attiene alle regole deve affrontare rappresaglie o ammutinamenti, rischiando di sfasciare la catena di comando. In un mondo ottuso, ostinatamente votato al rispetto della tradizione – anche quando tradizione vuole dire rimpiangere lo spacciatore all’angolo o il cliente proletario che si accontenta di un panino mediocre – diventa un atto di fede coraggioso quello di accettare il cambiamento, promuoverlo persino. E per riuscirci bisogna ricomporre i propri traumi, farlo tutti assieme, mettendo un morso all’ego così da frenarne le intemperanze.
“The Bear” mostra tutto questo con una sana dose di umorismo. Sì, perché durante gli otto episodi si ride spesso e volentieri. Showrunner e registi riescono così a compattare in poco più di mezz’ora a puntata il dramma e la comicità con grande armonia, anche quando – come nell’eccezionale settimo episodio, praticamente un lungo piano-sequenza che è tra le cose migliori viste questo 2022 – la tensione arriva al punto massimo, tra urla e accoltellamenti (davvero).
Verso la fine di “Kitchen Confidential”, libro autobiografico del 2000, lo chef statunitense Anthony Bourdain stilava una lista di consigli per ogni aspirante cuoco che vuole entrare nel mondo della cucina, quattordici punti che a tratti sembrano proprio insegnamenti di un maestro diretti al discepolo che desidera sapere come affrontare le difficoltà della vita. L’ultimo dice “Prendete le cose con umorismo. Ne avrete bisogno”.
E “The Bear” funziona a meraviglia proprio per questo motivo.
Nicola Laurenza