La politica italiana è in perenne crisi, è un grottesco gioco a somma zero. Leader politici, massimi esponenti della anti-democratica demagogia, ascendono e decadono in lassi temporali ristrettissimi. Durante queste penose parabole i cosiddetti leader – o aspiranti tali – si barcamenano in una campagna elettorale permanente condotta a suon di promesse mirabolanti e con la necessità, pur di capitalizzare più consensi, di costruire un «nemico» su cui far convergere lo scontento popolare.
Durante le recenti elezioni, il M5S aveva trovato il nemico negli immorali costi della politica e nella corruzione dilagante (non solo nella politica). La Lega Nord aveva semplificato criminalizzando migranti, rom, Ong e «zecche» dei centri sociali. Rumore propagandistico, intanto il nemico vero delle classi sociali subalterne se la ride dall’alto dei grattacieli di Bruxelles, Francoforte e New York. Dunque questa classe politica è solo una fucina d’una demagogia politica barbarica, frutto delle crisi capitalistiche, che si consolida ormai da trent’anni in ogni Stato dell’Europa e non solo, e si è sviluppata all’interno della gabbia, benevolmente accettata anche dagli euro-scettici, della governance europea. La politica s’è deliberatamente privata dell’autonomia di scelta per quanto riguarda le questioni focali (economia, fisco, gestione della spesa pubblica, regole di mercato, mercato del lavoro, ecc). Basti pensare all’introduzione nel 2012, quasi all’unanimità delle Camere, dell’articolo 81 in costituzione che prevede il pareggio di bilancio, quindi: totale libertà dei mercati, politiche monetarie unicamente rivolte al controllo dell’inflazione e divieto per lo Stato di qualsivoglia intervento in deficit spending sull’economia. In ultimo la politica ha briglie quasi sciolte esclusivamente per la minutaglia (ordine pubblico, libertà civili, ecc).
Mentre la condizione di vita della stragrande maggioranza della popolazione peggiora costantemente.
In un quadro politico così contraddittorio è emersa da tempo una realtà estremamente critica, e cioè lo «stato d’eccezione» che costituisce un punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico. La politica italiana opera, da anni ormai, in funzione d’una costante necessità emergenziale con provvedimenti eccezionali che spesso si sono discostati dall’ambito giuridico-costituzionale. Di conseguenza s’è creata la paradossale situazione di provvedimenti giuridici che non possono essere compresi sul piano del diritto e lo «stato d’eccezione» si palesa come la forma legale di ciò che non può avere forma legale. Gli ormai formali princìpi democratici vengono continuamente lesi in nome di uno stato d’emergenza permanente. Infatti lo «stato d’eccezione» tende a presentarsi come paradigma di governo dominante della politica contemporanea, e questo ignoto dis-locato divenuto tecnica di governo sta minacciosamente e radicalmente trasformando la struttura e il senso della distinzione tradizionale delle forme di costituzione.
Lo «stato d’eccezione» è una soglia d’indeterminazione tra democrazia e autoritarismo. Infatti i decreti-legge approvati dal governo giallo-verde (Decreto Sicurezza, Decreto Sicurezza Bis) rispecchiano esattamente questi meccanismi, e sono per molti versi dis-umanizzanti.
La richiesta esposta pubblicamente da Salvini di voler acquisire i «pieni poteri» caratterizza lo «stato d’eccezione», e si riferisce all’espansione dei poteri governamentali e, in particolare, al conferimento all’esecutivo del potere d’emanare decreti aventi forza di legge. Quindi il ritorno a uno Stato originale-autoritario in cui non v’è distinzione tra i diversi poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario).
Nella Repubblica romana, l’istituto del iustitium che sospende il diritto per un evento eccezionale veniva motivato in ultima istanza dal principio secondo cui: «ogni legge è ordinata alla salvezza comune degli uomini, e solo per questo ha forza e ragione di legge; se viene meno a ciò, non ha efficacia obbligatoria». Quindi in caso di necessità, la legalità vincolante della legge viene meno, perché il fine della salvaguardia umana viene nella fattispecie a mancare. Al contrario, con l’attuale «stato d’eccezione» diventa espressione della sovranità, la necessità di ledere di fatto la salvaguardia umana. Quindi si afferma una regressione del diritto e soprattutto un decisionismo politico che sfocia in un brutale potere che sorveglia e punisce. La attuale crisi di governo è il sintomo della demagogia politica: il dimissionario Presidente del Consiglio Conte ha incarnato l’incompatibilità tra teoria e prassi, ha rappresentato l’opportunismo politico d’una classe dirigente parassitaria e superficiale. Insomma, è stato l’ennesimo fantoccio momentaneo in uno Stato dove regna l’espediente istituzionale.
Ricordiamo compromessi immondi: l’asse Dc-Pci, il Craxi-Forlani-Andreotti, gli anni di Berlusconi, le miserie dell’Ulivo, l’invasione UE con il governo Monti, la staffetta Letta-Renzi e infine il pastrocchio contrattuale giallo-verde. Il Parlamento s’è dimostrato il teatro squallido della demagogia religioso-elettorale: Salvini nelle vesti di tribuno del popolo, si impone come il capo forte e invincibile per un elettorato stordito dal bisogno di sicurezza e di riduzione delle tasse. Ormai è più che evidente: Salvini è soltanto un mediocre razzista, opportunista e reazionario, le cui costanti giravolte schizofreniche lo dimostrano ulteriormente. Renzi, il banale progressista, ha recitato la parte dell’anima bella ed evangelizzatrice dimenticando però i ripugnanti lager finanziati anche dal suo governo, tramite Minniti, in Libia.
Renzi rappresenta pienamente la sinistra imputridita dal malato e devastante dogma del liberismo economico. Dunque s’evince che la totalità del Parlamento adora le sbarre della gabbia UE e NATO. Inoltre, gli afasici del M5S, rappresentati da Conte, hanno cercato una vanagloriosa redenzione con una arringa contro la Lega di Salvini dopo averci governato silenziosamente per 14 mesi. Non v’è assoluzione per l’ignàvia.
Per spiegare tale demagogia basterebbero le parole di Lenin: «La potenza del Capitale è tutto, la Borsa è tutto mentre il Parlamento, le elezioni, sono un gioco da marionette, di pupazzi».
Qui s’annida l’antagonismo tra interesse particolare e interesse collettivo, e la demagogia politica rende manifesta la funzione di uno Stato che cerca di far convergere interessi prettamente particolari verso una illusoria necessità collettiva; ma svanita l’illusione emerge che il potere politico dello Stato moderno non è altro che un comitato d’affari atto ad amministrare gli affari comuni di una determinata classe sociale che specula sulla forza-lavoro e sulle azioni bancario-finanziarie. In questo gioco politico a somma zero, M5S, Salvini, PD, Forza Italia etc.. ricercano consensi per il solo motivo che milioni di persone stanno cercando disperatamente una via d’uscita da una condizione sociale che peggiora da decenni e che le ha gettate in una incertezza intollerabile, che spesso diventa disperazione, e sperano di trovarla cambiando l’inquilino di Palazzo Chigi. Non è più rilevante sapere per quanto tempo funzioneranno i tatticismi elettorali o che tipologie d’inciucio verranno praticate. La forza che sconfiggerà la deriva autoritaria non è situata oggi in Parlamento o in un’urna elettorale o in una variopinta demagogia politica. Sarà la rabbia di milioni di lavoratori e di giovani a cui è stato promesso il «cambiamento» e che dovranno invece conquistarselo lottando in prima persona e coesi tra loro. La lotta è tra Capitale e lavoro salariato, tra ecologismo e illimitato plus-valore, tra vita e cieca devastazione.
Scrisse Po Chu-i: «Triste l’uomo che vide in sogno le fate!
Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita».
Non è più il tempo di sognare ma di riflettere, organizzarsi e lottare.
Gianmario Sabini