Il risultato è storico: in Basilicata – una delle regioni roccaforte del centrosinistra, che lì non perdeva dal 1995 – dopo 25 anni vince il centrodestra, guidato dall’ex generale della Finanza Vito Bardi in quota Forza Italia. Il risultato di queste elezioni, ultimo test prima delle Europee, è clamoroso soprattutto se si pensa che del 42% ottenuto dal centrodestra, circa il 17% è da attribuire alla Lega di Salvini, che forse per la prima volta riesce davvero a sfondare al meridione.
C’è però un dato che deve preoccupare Salvini: anche in Basilicata la Lega non è autosufficiente rispetto al centrodestra.
Si prosegue insomma, anche in Basilicata, sulla falsariga di ciò che era accaduto in tutte le regioni in cui si sono tenute elezioni dopo il 4 marzo: la vittoria di un centrodestra compatto, che riesce così a sconfiggere liste più votate se prese singolarmente. In questo caso, ad esempio, la Basilicata ha visto l’affermazione del Movimento 5 Stelle come prima lista con il 20% dei consensi, che non sono serviti però a regalare al Movimento il primo presidente di regione a 5 Stelle.
Era stato così anche in Molise, lo scorso aprile, quando il candidato di centrodestra Toma era riuscito a conquistare lo scranno di governatore benché nessuna lista della coalizione fosse riuscita ad arrivare al 10%; il totale però era bastato a sopravanzare il candidato del Movimento 5 Stelle, affermatosi nettamente come prima lista. Oppure, recentemente, in Sardegna, dove il Partito Democratico aveva ottenuto il maggior numero di consensi di lista (13%) ma si è visto battere di nuovo dal centrodestra, unito nel sostenere la candidatura di Solinas.
Con la Basilicata si compie, quindi, il sorpasso: diventano 11 le regioni governate dal centrodestra, contro le 9 del centrosinistra. Quasi tutte conquistate e amministrate con lo stesso schema, ovvero quello dell’alleanza a tre tra Berlusconi, Salvini e Meloni; uno schema che però Salvini ha già chiarito di voler limitare alle amministrazioni locali.
In un’intervista a Repubblica dopo il successo elettorale in Sardegna, a chi gli chiedeva se questa coalizione così forte alle elezioni regionali mettesse in discussione la tenuta del governo, Salvini ha risposto infatti: «Io col vecchio centrodestra non tornerò mai, questo deve essere chiaro. Governiamo insieme nelle regioni, nei comuni. Ma finisce lì». Per poi aggiungere, riguardo al rapporto con l’alleato di governo: «Abbiamo un’altra alleanza di governo e intendiamo rispettare l’impegno preso coi cittadini […] Con M5S va tutto bene, andremo avanti. Ho dato la mia parola e la mia parola vale cinque anni e non cinque mesi».
Quali sono quindi le future alleanze di Matteo Salvini? Un’idea possiamo farcela già a partire dalle prossime elezioni Europee.
Probabilmente, in base all’alleato, vanno fatti due discorsi separati. Con Fratelli d’Italia la sintonia, dal punto di vista programmatico, è quasi totale. Fa eccezione probabilmente una maggiore asprezza su alcuni temi da parte del partito di Giorgia Meloni, come la richiesta di blocco navale verso le navi che trasportano immigrati – dovute però anche alla necessità di trovare argomenti su cui fare opposizione a un governo del quale, per affinità tematiche, sarebbe volentieri entrato a far parte.
Fratelli d’Italia alle elezioni Europee correrà – come suggerito dal logo elaborato per l’occasione – con il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR), paradossalmente più moderati e inclini ad aperture al libero mercato (ne facevano parte, prima della Brexit, anche i Conservatori britannici) rispetto all’ENF di Salvini, ma una collaborazione tra le due forze dopo le elezioni è più che probabile.
Diverso invece il discorso per Forza Italia. Il partito di Berlusconi si colloca, ad esempio, in maniera quasi diametralmente opposta rispetto alla Lega sul tema dell’Europa: in quanto rifiuta l’euroscetticismo e si fa promotore di un programma che prevede perfino una maggiore integrazione europea, come nel caso della difesa comune e del progetto di un esercito unico europeo.
Per giunta, Forza Italia è da sempre alleata con il PPE, primo partito europeo da vent’anni e cardine della “burocrazia europea” tanto osteggiata da Salvini. Il partito di Orban, certo – benché sia stato recentemente “attenzionato” dai vertici del gruppo europeo –, ma anche il partito della Merkel, simbolo dell’epoca dell’austerity che la Lega ripudia categoricamente. Che due compagini così diverse possano dialogare per tentare di trovare un accordo dopo le Europee, resta francamente difficile.
Una coalizione di centrodestra rimane però destinata a realizzarsi, almeno in Italia, quando le contraddizioni tra Lega e M5S diventeranno insostenibili.
Al di là delle divergenze programmatiche, uno dei motivi che tiene lontano Salvini da Berlusconi, e quindi dall’idea di ritornare nell’alveo del centrodestra, è che così facendo tornerebbe a sporcare la sua immagine; ripulita invece dalla “lavatrice dell’onestà” a 5 stelle che ha reso il leghista – leader del partito di più antica fondazione presente tuttora in Parlamento e attivo in politica sin dal 1993 – un eroe dell’anti-casta.
Le continue rassicurazioni sulla tenuta dell’esecutivo, sul modello “dell’uomo che rispetta i patti”, servono esattamente a questo: a dare l’idea che di Matteo Salvini ci si possa fidare, che sia un politico diverso rispetto a quello che fino a pochi anni fa ripudiava il tricolore e il cui partito era al governo proprio con Berlusconi.
Ma l’alleanza con il centrodestra unito resta, nonostante le contraddizioni interne, soluzione di gran lunga più naturale rispetto al “governo Frankenstein” ora al comando del paese, e Salvini lo sa bene: se adesso se ne tiene alla larga, è unicamente per motivi di calcolo elettorale. Il leader leghista non ha nessun interesse, almeno prima delle Europee, a interrompere un trend che continua a essere positivo per sé e negativo per gli alleati di governo; e che continua a portargli vittorie in giro per l’Italia, come nell’ultimo caso della Basilicata.
Quando e se vorrà chiudere il capitolo gialloverde – magari alle prime avvisaglie di un calo nei consensi, che gli renda necessario capitalizzare –, avrà bisogno di un episodio fragoroso, senza via d’uscita, che lo discolpi e gli faccia dire in sostanza: “non è stata colpa mia”. E gli permetta di tornare, indisturbato, tra le braccia di Berlusconi.
Visto così, questo può sembrare l’incipit del manuale del delitto perfetto: Salvini ha tutto da guadagnare e nulla da perdere. Ma deve fare in fretta: gli italiani hanno già dimostrato più volte – soprattutto a ridosso delle Europee – che il consenso può calare tanto velocemente quanto rapida era stata la crescita. E, soprattutto, che di macchine da guerra perfette non ne esistono.
Simone Martuscelli