Con l’avvento della pandemia da Covid-19 sono venute alla luce ulteriori problematiche nel nostro Paese che non riguardano soltanto la sanità, la politica o la gestione dei contagi, ma anche il rigetto nell’accettare il “diverso” e, di conseguenza, nel non creare un luogo dove chiunque possa sentirsi al sicuro. Con l’utilizzo del Green Pass si è dato inizio a una discussione che doveva essere posta molto prima: l’utilizzo del deadnaming è un problema.
Che cos’è il dead name?
La parola deadnaming o dead name – ovvero “nome morto” – è un inglesismo che indica l’utilizzo del nome di battesimo (o “nome alla nascita”) per riferirsi alle persone transgender, che non si rappresentano più in quel nome.
Solitamente il deadnaming viene affiancato dal misgendering, che fa riferimento all’utilizzo errato dei pronomi o termini genderdizzati per riferirsi a una persona: per esempio, se una persona chiede di riferirsi a lei con pronomi maschili (egli/lui) è sbagliato usare pronomi femminili (ella/lei). Questo può avvenire sia per le persone cisgender – coloro che rivedono la propria identità di genere nel proprio sesso biologico – che per le persone transgender, ma è su quest’ultime che dobbiamo porre maggior attenzione.
Utilizzare il dead name equivale a un outing delle persone transgender: questa è un’azione violenta e discriminante perché avviene senza il consenso della persona interessata, dimostrando il mancato rispetto rispetto per la transgenerità scelta. In poche parole, si invalida un’identità.
In Italia, per la rettifica dei documenti bisogna aspettare 3/4 anni, quindi anche chi ha completato la transizione può ritrovarsi sprovvisto di documenti (CIE, tessera sanitaria, badge universitario, ecc…) conforme alla sua identità. Mentre in situazioni pre-pandemia i casi di richiesta di documento erano rari, con l’introduzione del Green Pass le situazioni di outing sono aumentate mettendo a rischio l’incolumità delle persone transgender. Non solo, la richiesta di Green Pass e del documento è diventato un momento di beffa verso la persona.
Il problema principale però non è il Green Pass, ma il fatto che il costume non si è adeguato ai principi del rispetto nei confronti delle persone transgender. Un esempio è il caso del podcast Morgana dove le due presentatrici, Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, nell’episodio “Le sorelle Wachowski” hanno utilizzato per 50 minuti il dead name delle due registe di Matrix. In un secondo momento si sono scusate dichiarando che «qualunque scelta avremmo preso sarebbe stata problematica», ma proprio quella di utilizzare il deadnaming è la scelta più sbagliata possibile; la strada più semplice sarebbe stata omettere un dettaglio di vita.
Un’altra dichiarazione delle due presentatrici: «Usare la schwa avrebbe risolto il problema delle declinazioni e quindi del misgendering, ma avrebbe rischiato di far diventare elitario un discorso che invece vogliamo arrivi a più persone possibili nel modo per loro più semplice» – fa emergere il problema principale che porta alla violenza verbale: non bisogna accaparrarsi il diritto di raccontare la storia di una persona senza tener conto delle conseguenze, di eventuali problemi e disagi, nel tentativo di raccontare una storia. Anche gli ascoltatori capirebbero che non c’è errore in questa azione.
Nel nostro Paese non c’è molta consapevolezza di questi argomenti poiché vengono ritenuti anormali o importati dall’estero; quindi, non roba nostra. Ciò non potrebbe essere più lontano dalla realtà. È un dovere imparare quale sia l’utilizzo corretto delle terminologie al fine di migliorare la convivenza con l’altrǝ, per vivere in armonia senza creare distinzioni dettate dall’ignoranza.
Gaia Russo