L’origine e l’etimologia dell’espressione teatrale antica – tragedia e commedia – godono di innumerevoli ipotesi e nessuna indiscutibile certezza. Sicuramente il teatro era espressione della civiltà greca – prima, e di quella romana poi – raggiungendo il periodo di massima fioritura nella seconda metà del V secolo a.C.
In particolare, la commedia conquistò una propria dignità artistica in ambito dei festival dionisiaci: secondo Aristotele, la commedia nacque dalle ‘falloforie’ (Poetica, 1449a), in linea dunque con i rituali di fertilità e il ciclo annuale della vegetazione. Il poeta ricondusse l’etimo alla parola greca κῶμος, il ‘corteo festivo’, suggerendo il collegamento con i goliardici riti di rinnovamento e rinascita.
Maschere, travestimenti, rappresentazioni mimiche che destassero ilarità e riso erano gli ingredienti distintivi del teatro comico, che hanno oltrepassato i secoli fino all’età contemporanea. Il ‘riso rituale’ aveva funzione apotropaica al fine di scacciare i pensieri negativi dell’anno passato, o meglio detti, φαρμακός, il ‘capro espiatorio’: non a caso le antiche feste comiche, fino all’odierno Carnevale, venivano festeggiate allo scorgere della stagione primaverile, la stagione della (ri-)fioritura.
La commedia, un genere nato dal basso: maschere grottesche e un linguaggio impertinente.
L’originaria commedia greca sviluppò diverse forme corrispondenti a differenti fasi, che i filologici alessandrini divisero in commedia antica, di mezzo e nuova. E la commedia latina seguì le sue orme.
La commedia antica, quella di Aristofane, è l’espressione del teatro irriverente, della satira secondo il principio dell’ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν, della ‘derisione di un personaggio per nome’: è il teatro che si sviluppa dal basso, da argomenti quotidiani e reali, dove gli eroi tragicamente sbagliano e sovvertono la realtà, volano o valicano impunemente l’Ade, a proprio piacimento e senza il minimo rispetto del concetto della verosimiglianza.
La commedia, d’altronde, è il genere della deformazione, delle maschere grottesche e delle rappresentazioni oscene. E il linguaggio ne rappresenta un altro ingranaggio-chiave: propone, al contrario della tragedia, forme e modelli vicini al parlato, caricandosi di elementi scherzosi, metafore e iperboli, neologismi e libertà colloquiali.
La commedia di mezzo rappresenta la fase di transizione, che vede lentamente diminuire il ruolo – centrale nella tragedia – delle parti liriche, precisamente del coro, simbolo della coscienza collettiva. È il momento della parodia, che dissacra miti e leggende, inghiottendo l’epico nella celebre morsa del teatro dell’assurdo.
La commedia nuova coincide con il delinearsi dell’epoca ellenistica e, infatti, riflette il quadro politico e sociale contemporaneo: l’attore principale perde i connotati dell’eroe teatrale e assume la fisionomia e la psicologia di una persona comune, spinta dai propri desideri e dalla vissuto personale. Scompare il coro e viene a mancare anche la parabasi, che disfa il contatto diretto col pubblico, innalzando la barriera tra recita e auditorio. Permane una certa ispirazione al verosimile, a tal punto che i personaggi cominciano a categorizzarsi in dei veri e propri ‘tipi’ (il giovane innamorato, il vecchio scorbutico, il servo parassita, il soldato sbruffone, il cuoco,…), ripresi poi e consolidati dalla commedia romana (cfr. la commedia degli equivoci di Plauto).
Diminuisce l’elemento fantastico e surreale di Aristofane, si abbandona lo sbeffeggiamento del mito e subentra l’attenzione agli intrecci privati e scabrosi di un qualsivoglia sfortunato protagonista. E a risentirne è anche il linguaggio: più reale, meno informale e scurrile. Solito a sentirsi.
Prima della commedia dell’arte, o anche ‘Carnevale‘
La commedia latina confluì in quella che notoriamente viene ricordata come commedia elegiaca (o latina medievale). In un momento storico – quello del XII secolo – in cui scabrosità e indecenze erano state messe al bando e represse, la commedia fu costretta ad un ridimensionamento. Non più composizioni in esametro, ma testi in distico elegiaco che rimandavano a vivaci dialoghi licenziosi. Il vero teatro del periodo medievale era la Chiesa, dove le rappresentazioni, di argomento religioso e sacro assumevano fini di agglomerazione e didattici. D’altro canto, nelle piazze di paese e durante le feste cittadine, si andava delineando la figura dell’attore professionista, quella del giullare.
Il profano contrasta il sacro, lasciando viva la traccia di una composizione irriverente per un’esecuzione perlopiù orale. È un tipo di commedia detta anche ‘oraziana‘, perché vicina alla natura delle satire: una versione comica della letteratura – lasciva e libertina – della novellistica, che trovò terreno fertile in Francia e, particolar modo, nelle corde dei cantori d’Orleans.
Una nuova diaspora del genere comico ci fu nel XVI secolo, quando alla commedia volgare si contrappose la commedia d’arte. La prima, nata nelle corti locali, era il risultato dell’aggiunta dell’elemento laico alle rappresentazioni sacre dei secoli precedenti, ponendo le basi per le declinazioni territoriali delle ‘farse in dialetto’. La commedia d’arte, o all’italiana, invece, introdusse il concetto di recitazione a partire dai canovacci (dove venivano suggerite indicazioni generiche riguardo alla narrazione) e non dai testi scritti, per l’amore di uno spettacolo che non veniva più inscenato a teatro, bensì all’aperto. Dunque, la rappresentazione teatrale abbandonava regia e scenografia per irrompere in strada, adornandosi di pochi oggetti scenici, introducendo per la prima volta la presenza femminile tra gli attori e iniziando la secolare e fortunata gloria delle celebri maschere – ad oggi ancora iconiche – del nostro Carnevale. Arlecchino, Balanzone, Colombina, Pantalone sono tra i noti ‘tipi’ appartenenti al nostro immaginario folkloristico, che muovono i primi passi proprio dal genere comico d’improvviso, o ‘a braccio’, lì dove ‘arte’ rimandava al significato medievale di ‘mestiere’. Dunque un’improvvisazione di veri e propri professionisti.
L’archetipo del Carnevale era servito: le compagnie teatrali, itineranti di piazza in piazza, avevano riscoperto il senso primo – prototeatrale – del genere. Destare riso, sbeffeggiare per nome senza barriere, coinvolgere e divertire, de – vertendo l’attenzione del pubblico via dalle preoccupazioni comuni.
Uno spettacolo, però, che aveva smarrito l’onore e la dignità di una recitazione pensata e studiata, della premeditazione psicologica di un personaggio ‘in fieri sulla scena’, del senso vero del teatro – secondo il pensiero di Carlo Goldoni. Due secoli dopo l’incontrastato presidio della genere comico d’arte, quindi, ha inizio la rivoluzione che porterà alla delineazione della commedia moderna. La riforma goldoniana comincia dal rifiuto dell’improvvisazione: per la prima volta, grazie al contribuito della stampa, compaiono i copioni di scena per ciascun attore. La maschera, riconoscibile ed esagerata, diventa ‘carattere’ – più umano ed etichettabile per tratto linguistico, culturale e sociale. Il fine torna quello di bacchettare il vizio, restituendo al teatrante l’onorevole ruolo di portatore di verità e consapevolezza. La moderna opera di Goldoni era una commedia mai lasciata al caso, che indossava le maschere per mettere in scena persone, la cui triste involuzione si nascondeva dietro una risata amara.
Ma, appunto, il Carnevale è tutta un’altra storia.
Pamela Valerio