Anabel Hernández è una reporter investigativa messicana che da anni si occupa di narcotraffico e corruzione nel suo paese. Il lavoro svolto nei suoi ultimi anni di carriera ha fatto luce su tutti i temi caldi legati a politica e società messicane, dagli affari del Cartello di Sinaloa al caso Ayotzinapa.

In seguito alla pubblicazione del suo libro La terra dei narcos (2014), Anabel Hernández vive stabilmente a Berkeley, in California. Pur recandosi regolarmente in Messico per viaggi di lavoro, la giornalista ha dovuto abbandonare il suo paese in seguito all’intensificarsi delle minacce rivolte alla sua sicurezza personale.

In un paese in cui negli ultimi 15 anni sono stati assassinati circa 100 reporter e in cui i giornalisti corrono più pericoli che nelle zone di guerra in Medio Oriente, la Hernández ha dimostrato uno sprezzo del pericolo non indifferente nell’esercizio della sua professione: nel 2011 accusò in televisione Genaro García Luna, Segretario Generale per la Pubblica Sicurezza e personaggio oscuro delle cronache politiche messicane, di ordire trame per attentare alla sua vita. A causa dei rischi a cui le numerose inchieste da lei condotte sui traffici di droga in Nord e Centro America l’hanno sottoposta, nel 2012 le è stato assegnato il premio Golden pen of freedom.

In Italia, la figura di Anabel Hernández ha guadagnato una certa fama tra chi si occupa di mafia e traffico di stupefacenti. Roberto Saviano ha curato la prefazione all’edizione italiana de La terra dei narcos. Nel maggio 2016, la Hernández è stata in Italia, al Teatro Massimo di Palermo, per la proiezione del documentario Silencio: Le strade del narcotraffico tra Messico e Italia, firmato Attilio Bolzoni e Massimo Cappello; con lei, oltre ai due autori, c’era Diego Enrique Osorno, altro esponente di spicco del cosiddetto nuevo periodismo d’inchiesta latinoamericano. Ancor più di recente, Anabel Hernández è stata ospite della decima edizione del Festival di Internazionale a Ferrara.

La giornalista ha spesso sottolineato, in articoli, interviste e pubblicazioni, la svolta di carattere imprenditoriale intrapresa dal narcotraffico messicano.
In un paese che ha svenduto la sua anima in seguito alla ratifica del NAFTA (trattato di libero scambio del Nord America) nel 1994, gli affari legati al traffico di droga si presentano come un’esasperazione dello squalismo capitalista, le cui dinamiche si riflettono nel modo in cui i cartelli operano in relazione gli uni con gli altri. In particolare, dai primi anni 2000, col governo che ha cominciato ad appoggiare alcuni gruppi criminali piuttosto che altri, quella sorta di pax mafiosa che fungeva da anti-trust criminale sin dagli anni ‘70, e che garantiva un controllo paritario di tutto il Messico a soli 5 cartelli, è stata rotta. Stando a quanto detto dalla Hernández in un’intervista a CarmillaOnLine, da quel momento le geografie del narcotraffico si sono stravolte e il controllo sul territorio è stato declinato violentemente nelle mire espansionistiche di cartelli che, scindendosi in unità sempre più piccole ma ben equipaggiate, cercano di sopraffarsi l’un l’altro.

Anabel Hernández, nata nel 1971 a Città del Messico, si è principalmente occupata del Cartello di Sinaloa, una delle espressioni più longeve e potenti della criminalità messicana. La reporter è accreditata anche come biografa di Joaquín Guzmán Loera, meglio noto come El Chapo, da molti considerato il più influente narcotrafficante al mondo. Quella del Chapo, tra arresti ed evasioni rocambolesche, è una storia dal carattere cinematografico, tanto che il suo ultimo arresto, nel gennaio 2016, è avvenuto in un momento in cui era in contatto con Sean Penn per il progetto di un film sulla sua vita.

In un’intervista rilasciata a Omero Ciai di Repubblica il 10 gennaio, due giorni dopo la cattura, la Hernández ha commentato la natura artificiosa dell’ennesimo arresto e delle precedenti fughe dal carcere del Chapo Guzmán. Nel luglio 2015 il boss evase da un carcere di massima sicurezza nei pressi di Toluca, in cui albergava dal febbraio 2014. La scelta del verbo non è casuale; secondo Anabel Hernández, El Chapo qui godeva di ogni tipo di privilegio e, durante la detenzione, il giro di affari del Cartello di Sinaloa non subì alcun contraccolpo. Per la Hernández, l’ultimo arresto del Chapo ha avuto come unico scopo quello di rinforzare gli equilibri interni alla DEA, l’antidroga statunitense, il cui coinvolgimento si è tentato di celare per non dare adito ai legali del Chapo di accusare il governo messicano di favorire ingerenze esterne proibite per legge.

Anabel Hernández ha, inoltre, seguito la più cruenta vicenda di sangue messicana degli ultimi decenni. Dall’inizio della cosiddetta “guerra della droga” in Messico sono sparite circa 26 mila persone; i tristemente noti 43 studenti della Escuela Normal Rural Isidro Burgos di Ayotzinapa (Guerrero) rappresentano solo l’ultimo e più eclatante caso. In un articolo della Hernández pubblicato su Internazionale, viene reso noto il fatto che il governo messicano, nel condurre le indagini sul caso, abbia arrestato 120 presunti colpevoli, molti dei quali sono stati torturati in sede di interrogatorio. Quello del reato di tortura è un tema che emerge spesso dalle cronache messicane, a causa dei cruenti protocolli largamente diffusi tra le forze dell’ordine. Ciò rappresenta l’ennesima violazione dei diritti umani avallata dal governo di un paese in cui la tortura è incostituzionale, e che negli anni ‘80 firmò una mozione ONU contro pene e trattamenti inumani o degradanti.

Cristiano Capuano

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