Szymborska: poesia facile, sopravvalutata. Il Nobel? Immeritato, doveva andare a qualcun altro. Magari ad Herbert, per restare in Polonia. Sono opinioni comuni e almeno quella riguardo alla facilità ha qualche fondamento: la poesia della Szymborska è arguta, brillante, ma non promana quell’alone di mistero che inviti non alla semplice rilettura, ma ad un eterno rileggere che faccia afferrare un qualcosa di sfuggente. Allo stesso tempo però, è una poesia sostenuta da una precisa visione del mondo e, analizzarla dal punto di vista del suo rapporto con la natura, può essere illuminante.
Come disse George Wald, «un fisico è la maniera che ha l’atomo di conoscere l’atomo». Se concediamo alla letteratura un qualche valore epistemico, seppure di natura diversa da quello posseduto dalle scienze (‘dure’ o ‘sociali’ che siano), possiamo parafrasare Wald e affermare che: “uno scrittore è una maniera che ha il mondo di conoscere il mondo” (si pensi a Pessoa che, nei panni di Alberto Caeiro, dice «reco all’Universo se stesso»). Cosa si intenda con questo ‘mondo’ (o ‘Universo’) è tutto da stabilire, ma viene da pensare che esso debba comprendere la natura, ovvero ciò che convenzionalmente include almeno il mondo minerale, la flora e la fauna. E che nella fauna bisogni includere l’essere umano stesso, in quanto appartenente alla specie homo sapiens.
L’uomo, questo animale con il senso del passato e del futuro, animale storico e malinconico, che usa i simboli, questo animale che scrive poesia, tiene diari, balla e dipinge altri animali come nelle grotte di Altamira e di Lascaux, ha spesso riflettuto sul rapporto tra sé stesso e il resto del mondo naturale.
Che cos’è il biblico mangiare dall’albero della conoscenza e la successiva cacciata dal paradiso terrestre, se non un’allegoria del prezzo da scontare per l’autocoscienza (l’uomo è l’animale che dice “io”), che esilia l’uomo dalla beata ignoranza del ‘qui e ora’ degli altri primati?
Non solo dei primati, ovviamente, ma anche degli altri esseri e animali, il cui linguaggio, per quanto sviluppato e sorprendente, manca della proprietà del distanziamento, che rende possibile ogni riflessione, ogni poesia, ogni giornalismo, ogni finzione: come scrive il linguista Berruto, «il mio gatto può comunicarmi miagolando che ha fame e vuole mangiare, ma non può comunicarmi con nessun miagolio (in nessun modo) che ieri aveva fame».
Secondo Nabokov, la letteratura nacque proprio così: non quando un ragazzo uscì di corsa da una caverna gridando “al lupo” e il lupo era presente, ma quando uscì gridando al lupo e di lupi nemmeno l’ombra.
Una pietra e una cipolla
Siamo separati dagli animali (e dal resto della natura) irreparabilmente e questo ci dà, in momenti diversi, una sensazione di estrema superiorità, ma anche un vago senso di estraneità, di distacco irrimediabile. La filosofia, la scienza, la letteratura sono tutti tentativi di penetrare un mondo con cui non possiamo più identificarci completamente. Questa sembra essere una buona chiave di lettura di alcune poesie di Wisława Szymborska. In “Conversazione con una pietra”, il problema di penetrare il mondo naturale è sviluppato sotto forma di un dialogo in cui una voce chiede alla pietra di aprirle la porta e la pietra risponde fermamente di no, arrivando ad ammettere «non ho porta».
Secondo Heidegger, la pietra è priva di mondo (weltlos), l’animale è povero di mondo (weltarm) e l’uomo è costruttore di mondo (weltbildend). Sembra che, consapevolmente o meno, la Szymborska si ritrovi in questa categorizzazione. “Conversazione con una pietra” è un buon esempio, ma non è l’unico. In “Cipolla”, la Szymborska mette a confronto l’anatomia violenta dell’essere umano e la perfetta idiozia della cipolla, uguale a sé stessa ad ogni strato, nient’altro che ‘cipollosità’. La pietra e la cipolla szymborskiane ricordano, nel loro essere senza accesso al mondo, il ciottolo di un altro poeta polacco, Zbigniew Herbert, «esattamente ripieno/ di senso pietroso».
Il gatto e la scimmia
Nella poesia “Il gatto in un appartamento vuoto”, l’animale aspetta il ritorno di un padrone che non può tornare, perché, come presentiamo dal testo, ma come ci è confermato dall’epitesto (la poesia fu scritta per il marito scomparso, il poeta Kornel Filipowicz), l’uomo è morto. L’ambiente domestico è presentato dal punto di vista del felino, povero di mondo, in grado di sentire che qualcosa non va, ma non di capire fino in fondo. Potremmo dire che qui più che altrove vale la differenza operata da Josef Pieper tra mondo (welt) e ambiente (umwelt, concezione presa da Uexküll). Il gatto, che ha solo un ambiente, sente, reagisce, ma non comprende.
Parlare di rapporto tra l’uomo e la scimmia in letteratura fa subito venire in mente un racconto di Kafka, “Una relazione per un’accademia”, dove Pietro il Rosso, una scimmia, narra della sua umanizzazione. “La scimmia” della Szymborska, si ferma un attimo prima, giocando su questa vicinanza del primate all’essere umano, che non arriva mai ad essere identità. È per esempio paragonata a un bambino (“Calda come un neonato”) e, nello stesso verso, a un anziano (“tremante come un vecchio”), ma poco dopo si aggiunge che «Il suo cervello ha un sapore delicato,/ e qualcosa gli deve pur mancare,/ dato che nulla ha mai inventato.»
L’essere (per ora) umano
Si arriva al weltbildend heideggeriano, all’homo sapiens. La Szymborska è ironica sulle possibilità umane. Sa che l’umano è solo un passo evolutivo e non è necessariamente il migliore. “Discorso all’ufficio oggetti smarriti”, dal titolo ingannevolmente asettico, è in realtà una sorta di storia dell’evoluzione umana narrata in prima persona. Nei primi versi è una storia di evoluzione culturale: «Ho perso qualche dea per via dal Sud al Nord/ e anche molti dèi per via dall’Est all’Ovest.»
In altri il riferimento all’evoluzione biologica è più marcato: «Non so neanche dove mai ho lasciato gli artigli,/ chi gira nella mia pelliccia, chi abita il mio guscio.»
Successivamente, i due piani, biologico e culturale, si ibridano nello stesso verso e anche nella stessa immagine: «Non stavo nella pelle, sprecavo vertebre e gambe,/ me ne uscivo di senno più e più volte./ Da tempo ho chiuso su tutto ciò il mio terzo occhio,/ ci ho messo una pinna sopra, ho scrollato le fronde.»
È il finale, però, il luogo forse più importante di questa breve e densa poesia:
«Perduto, smarrito, ai quattro venti se n’è volato.
Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato:
una persona singola per ora del genere umano,
che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno.»
Nell’originale, il testo dice: «una persona singola del genere momentaneamente umano». Szymborska sa che l’essere umano è momentaneo, provvisorio. La prospettiva della poetessa ricorda quella di Caeiro che così si rivolge a un uccello:
«passa e insegnami a passare.»
La poesia della Szymborska dimostra che, attraverso la riflessione sulla natura, è proprio l’uomo a venire illuminato. Così, quando definisce la scimmia “uboga krewna”, una parente povera (di mondo?), la Szymborska finge di parlare del primate, ma in fondo parla di noi, che vi siamo imparentati. La poesia sulla cipolla non è solo una poesia sulla cipolla, ma soprattutto sulla distanza che esiste tra noi e tale oggetto di natura. Proprio nel confronto con il mondo naturale, il pensiero poetante della Szymborska ci ricorda da dove veniamo, quello che ancora in parte siamo e la sua provvisorietà.
Luca Ventura